Editoriale 37. Senza limite

Ogni forma di limite, per natura e per fortuna, è un contrappeso alla libertà. Su questo principio la politica ci orienta i voti, l’economia ci poggia le imprese e la società comune ci perde tempo con la privacy. I casi più utili a capire quale sia davvero il valore del limite sono quelli in cui […]

Ogni forma di limite, per natura e per fortuna, è un contrappeso alla libertà. Su questo principio la politica ci orienta i voti, l’economia ci poggia le imprese e la società comune ci perde tempo con la privacy.

I casi più utili a capire quale sia davvero il valore del limite sono quelli in cui lo si tira per le due estremità: è nella capacità elastica, finalizzata a evitare la rottura, che ha l’occasione di dimostrare tutta la sua estensione, anche fin dove non avremmo mai immaginato potesse arrivare.

E’ così, del resto: la parola “estensione” è tra quelle che hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni della nostra storia.

Eravamo cresciuti con un’idea netta del confine e del rapporto tra premesse e conseguenze, tra il di qua e il di là; ci eravamo abituati a pensare il limite come una demarcazione indiscutibile sulla carta e percorribile solo nella pratica. In questo la geografia è sempre stata la migliore insegnante e con lei la storia, sua iniziale stagista ma ormai in carriera da secoli. Dovendo chiederci cosa davvero identifichi il limite come tale, forse l’unica risposta univoca potrebbe essere la sua misurazione. Misurare è un gesto docile a parole e scontroso nei fatti perché ogni forma di calcolo richiede un’alleanza, a volte con lo spazio e a volte con il tempo.

La tecnologia, disinibita e sfrontata come è giusto che sia, ha sdoganato senza mezze misure quel desiderio recondito di tirare l’elastico più del dovuto per vedere cosa potrebbe succedere. Solo i bambini, oltre a lei, si permettono di non dover dimostrare niente di più della propria spinta ad osare.

Industria e processi produttivi mediamente se la cavano bene quanto a limiti e progressi perché i paletti da mettere e da oltrepassare sono spesso più visibili che altrove. Diverso è il discorso per il mondo dell’impresa agricola. Ancor più complesso è quello dei servizi pubblici, dove la difficoltà non sta tanto nella misurazione in se’ dei risultati quanto nella volontà di individuare quei valori che potrebbero diventare parametri scomodi da gestire. Ogni limite, se misurato, diventa una eredità pesante.

Fino a dove è opportuno spingersi è la vera domanda da porsi, soprattutto se riferita al nostro rapporto col lavoro e con la crescita che ci immaginiamo: non esistono risposte giuste o sbagliate perché tutto sta nella domanda e nella sua premessa. Siamo liberi, come persone ed esseri umani, di sentirci compatibili con logiche metriche o numeriche per capire fino in fondo se e quanto vogliamo cambiare, se e quanto vogliamo estenderci? Non c’è niente di male a ragionare con chi la pensa diversamente da noi, tutt’altro, e c’è solo da migliorare nel prendere in prestito attitudini diverse pur rimanendo fedeli a se stessi. Quando lavoriamo, il nostro vero limite è lo spessore che ci caratterizza; ciò che sappiamo fare, e come lo facciamo, diventa il metro di misura per chi ci vive da fuori. Le competenze stanno alla crescita come i numeri stanno al limite.

Tutti abbiamo il diritto di estenderci ma molti hanno paura di vederlo accadere.

Ce lo confermano tre recenti casi di cronaca presi in prestito dallo sport, dalla politica e dall’editoria.

Antonio Conte, criticato nei giorni scorsi da Jose Mourinho per aver esultato con troppa enfasi al termine del match che li ha visti contrapposti e che ha visto affondare la squadra allenata del portoghese, a un certo punto ha tirato dritto dicendo “cambio lavoro se non posso esultare”. Buona parte della stampa ha subito messo la lente sul rapporto tra i due, sulla leadership più forte e sulla parabola discendente dello Special One: tutte buone ragioni per attirare il pubblico e incrementare le vendite. La forza della notizia stava invece nello spazio immaginario guadagnato dall’allenatore italiano. Siamo capaci di rivendicare noi stessi e di estendere la nostra persona anche attraverso un gesto o un’emozione.

“Ci deve essere un dibattito su quali competenze vogliamo avere nel Regno Unito e dove dobbiamo andarle a cercare fuori per aiutare il nostro business e per sostenere la nostra economia”. Queste, testualmente, le parole pronunciate dal Ministro dell’Interno britannico Amber Rudd che hanno scatenato giornate di polemiche sulla stampa locale ed estera oltre che violente critiche al presunto razzismo della dichiarazione. Tutti a puntare l’indice e nessuno a sottolineare la centralità della domanda posta dal Ministro al suo paese aldilà del fatto che potesse esserci o meno un intento di chiusura in quella politica del lavoro: in sostanza ha chiesto “che Stato vogliamo essere e che competenze ci servono per diventarlo?”. Se accadesse in Italia sarebbe già un successo il sentirlo pronunciare da un nostro politico, un vero atto di responsabilità a cui abbiamo perso l’abitudine.

Il comitato di redazione del Sole 24 Ore si è schierato nelle ultime ore sulle vicende di malagestione manageriale che sono emerse in capo agli azionisti del Gruppo e che hanno generato buchi milionari.”La redazione del Sole 24 Ore ha le carte in regola per potere continuare a essere un punto di riferimento nel dibattito pubblico. Forse una piccola controstoria del Sole 24 Ore, sicuramente una storia alternativa. Dove c’è dentro un po’ di tutto e molto anche di quello che agita il nostro presente: dalle acquisizioni avventate, ai nodi della governance, alle remunerazioni dei manager, alla disponibilità dei giornalisti a lavorare per lo sviluppo senza tabù o resistenze anacronistiche, alle diversificazioni improduttive sino ad arrivare alla svolta digitale con le sue luci e ombre”. Il loro comunicato stampa è un gessetto che stride forte alla lavagna: i soldi da una parte, difesi e offesi dagli azionisti; i giornalisti dall’altra, esclusi e delusi. Mentre i figli facevano i compiti e orecchiavano alla porta dei grandi, i genitori svendevano il loro futuro alle bische del potere.

Esiste davvero un limite così invalicabile che ci impedisce di interrompere un fallimento personale o aziendale e che ci fa stare al di qua del disastro in attesa che si consumi? Rispondere dipende sarebbe già una onesta presa di coscienza.

 

 

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