Volontari a busta paga dallo stress

Gli anglofoni lo chiamano “workaholism” che in inglese significa “alcolisti legati alla bottiglia” ma il concetto vuol dire in poche parole “dipendenza da lavoro”. Che si ritrovi proprio in questa definizione tanto reale ed attuale la vera causa dell’elevato livello di malattie contratte sui posti di lavoro? Potrebbe esserlo se considerassimo che all’interno dell’espressione di origine britannica si […]

Gli anglofoni lo chiamano “workaholism” che in inglese significa “alcolisti legati alla bottiglia” ma il concetto vuol dire in poche parole “dipendenza da lavoro”. Che si ritrovi proprio in questa definizione tanto reale ed attuale la vera causa dell’elevato livello di malattie contratte sui posti di lavoro? Potrebbe esserlo se considerassimo che all’interno dell’espressione di origine britannica si cela (non più di tanto) quel termine così odiato ma che da secoli colpisce l’esistenza umana: lo stress da lavoro.

Se partiamo da questo concetto per individuare i motivi e le possibili soluzioni del rapporto che lega malattia fisica a prestazione professionale allora diciamo che l’uomo, la donna, in generale le maestranze, per la maggior parte, sono veri e propri “alcolisti legati alla bottiglia”. Come effettivamente avviene per l’alcolista che non può fare a meno di bere, anche quello “da lavoro” – come si evince dalla statistica che troviamo qualche riga avanti – vuole essere impegnato in ogni momento persino per il compito più inutile. E questo avviene per varie cause: insoddisfazione personale, familiare, quindi motivi riconducibili prevalentemente allo stato psico-sociale del lavoratore.

La dipendenza vista dai Paesi Nordici

Pareri autorevoli suffragano questa tesi: esperti psicologi dell’Università di Bergen (Norvegia) hanno illustrato i risultati di un’indagine sul tema, su un campione di quasi 15 mila lavoratori, che ha messo in luce importanti intrecci tra vari fattori incidentali. «Chi soffre di workaholism – spiega Cecilie Schou Andreassen, psicologa clinica dell’ateneo scandinavo – ha ottenuto punteggi più alti su tutti i sintomi e disordini psichiatrici rispetto a chi non ne soffre. In particolare, le persone in oggetto risultano colpite da deficit di attenzione ed iperattività (32.7%) ed ossessivo-compulsivo (26,6%), di ansia (33,8%) e depressione (8%), come se non dovessero mai rinunciare a lavorare neppure al rientro a casa».

Partendo dal luogo comune che l’uomo è un essere umano e non una macchina, la stessa Schou Andreassen asserisce nella sua analisi che: «Spingere il lavoro all’estremo potrebbe essere un segno di problemi psicologici od emotivi più forti». Qui allora sorge il dubbio su come addirittura possa esistere o meno una concausa lavoro-malattie: è il surplus deleterio di lavoro a generare disordini psichici o, inversamente, è la scarsa attitudine mentale alla professione a determinare una concentrazione tanto massiccia, esagerata e nociva di lavoro?

La dipendenza vista dall’Italia

Su come risentire psicologicamente prima e fisicamente poi di un eccesso di lavoro oltre il consentito fino ad ammalarsi, altri dati strettamente limitati ai confini italiani dipingono un quadro poco rassicurante di malattie dei decessi dipendenti da lavoro nel Bel Paese. Da una statistica stilata sulle malattie professionali (fonte Inail), con riferimento all’intero 2015 è emerso che in Italia sono state fatte circa 59 mila denunce di malattia, con un preoccupante aumento del 25% (1.500 unità circa) rispetto all’anno precedente ed addirittura con un + 24% in un confronto quinquennale con il 2011; solo al 34% è stata riconosciuta la causa professionale (cioè patologia contratta direttamente sul posto di lavoro o per motivi legati alla professione svolta) e di queste malattie, il 63% è correlato a patologie del sistema osteomuscolare mentre il 2,7% è dovuto a polveri di asbesto (amianto, riconosciuto come cancerogeno). Le denunce di soggetti ammalati (e non di malattie, quindi) sempre nell’arco del 2015, invece, ammontano a 44 mila (39% è la quota di coloro che hanno avuto il riconoscimento della causa professionale): ne sono deceduti 1.462 (3,3%, con miglioramento del -27% rispetto al 2011), dei quali 470 per silicosi/asbestosi.

Non ho l’età (per ammalarmi)

Se togliamo l’amianto, che comunque continua a preoccupare e a rappresentare una discreta e crescente incidenza nella mortalità in azienda, un altro fattore entra in gioco nel rapporto lavoro-malattia: l’età.

Si deve fare una doverosa distinzione: se da una parte i vantaggi che un lavoratore anziano può portare all’azienda sono molteplici, come la saggezza, l’esperienza professionale e la conoscenza della strategia aziendale, dall’altra però con il naturale processo di invecchiamento, il soggetto subisce la diminuzione delle capacità fisiche e sensoriali con inevitabile ripercussione nella salute oltre che nel suo percorso professionale in caso di indesiderato ma obbligatorio surplus lavorativo. Questo rischio può essere in parte eliminato dalla tecnologia che viene incontro al dipendente, a prescindere dall’età, ma non allontana quei pericoli connessi al lavoro pesante e al suo svolgimento in ambienti a temperatura bassa o elevata, specie se il lavoratore è provato da anni di attività e la pensione è ancora lontana.

I turni, inoltre, complicano ulteriormente lo stato di salute soprattutto se un lavoratore anziano, già provato da anni di fatiche, è sottoposto a mansioni in orari notturni (in particolare per i vigili del fuoco, per chi si occupa di sicurezza, per gli operai).

La stessa Unione Europea ha stabilito, con la strategia per la crescita denominata Europa 2020, di aumentare in pochi anni al 75% (dall’attuale 50,1%) il tasso di occupazione della popolazione in età compresa tra 20 e 64 anni. E’ una sfida molto suggestiva ed apprezzabile che la Ue intende vincere ma a quale prezzo per la salute del lavoratore?

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