Cervelli in fuga, pendolari moderni

Fuga dei cervelli, esodo dei talenti, brain overflow, human capital flight: termini differenti a livello stilistico ma non a livello concettuale e che, secondo l’autorevole Dizionario Treccani, rimandano tutti alla stessa definizione: “Fenomeno di emigrazione di personale tecnico-scientifico, ad alta qualificazione professionale, verso Paesi in cui vigono migliori condizioni di lavoro e maggiori remunerazioni, soprattutto […]

Fuga dei cervelli, esodo dei talenti, brain overflow, human capital flight: termini differenti a livello stilistico ma non a livello concettuale e che, secondo l’autorevole Dizionario Treccani, rimandano tutti alla stessa definizione: “Fenomeno di emigrazione di personale tecnico-scientifico, ad alta qualificazione professionale, verso Paesi in cui vigono migliori condizioni di lavoro e maggiori remunerazioni, soprattutto nel campo della ricerca scientifica”. Si tratta di un fenomeno, questo, già riconosciuto nei primi anni Sessanta dalla Royal Society inglese, che lo definì “brain drain” e, dando un’occhiata alle statistiche, sembra che la fuga dei cervelli sia ancora attualissima. Secondo dati diffusi dalla Farnesina nel 2015, infatti, gli italiani emigrati all’estero sono oltre 107mila, con un aumento di oltre seimila unità in un anno e ben 817mila complessivi, nel decennio che va dal 2006 al 2016.

Il Jobs-Act, il precariato, l’assenza di meritocrazia, il desiderio di fare ricerca ad alto livello e, non da ultimo, il problema dei bassi salari sono solo alcune delle motivazioni che determinano la decisione di molti giovani italiani di andare a specializzarsi o di lavorare all’estero. «Tra le tante cause di questa migrazione di talenti, uno dei fattori determinanti riguarda l’abbassamento della qualità della vita nel nostro Paese in termini di socialità e di accesso ai servizi. È ovvio che un giovane tenda cercare situazioni in cui è più facile costruire una propria traiettoria di vita», commenta il sociologo Flavio Antonio Cervolo, docente di Metodologia della ricerca sociale e Sociologia e ricerca sociale all’Università di Pavia e autore del libro Cervelli in transito, edito da Carocci editore.

Il programma brain buster e l’incertezza del Jobs Act

Per contrastare questo fenomeno, nel 2001 è stato varato dall’allora ministro dell’Università Ortensio Zecchino il primo programma per il rientro dei cervelli, denominato “brain buster” — o “acchiappa cervelli” — e da allora molte sono state le iniziative e gli incentivi, sia a livello statale che regionale, per l’attuazione di politiche che possano permettere il rientro dei cervelli in Italia. L’ultima mossa in questo senso si configura nella Legge 238/10, nota come “legge sul controesodo”, modificata definitivamente dall’art. 16 del D. Lgs. 147/2015 e successivamente prorogata fino a dicembre 2017. La nuova legge prevedeva inizialmente, per chi avesse svolto almeno due anni di esperienza di studio professionalizzante all’estero, un’agevolazione fiscale del 70% per gli uomini e 80% sul biennio. Con la modifica e la proroga — che però vale solo per i soggetti rientrati in Italia entro il 31 dicembre 2015 — sono cambiati alcuni parametri. La detassazione è stata abbassata al -30% ma è stato aumentato il periodo di fruizione, che dai 2 passa ai 5 anni. Altra differenza sostanziale riguarda l’applicazione degli sgravi, che oggi si riferiscono solo ai lavoratori dipendenti, mentre prima erano applicabili anche a chi rientrava in Italia intenzionato a inserirsi nel mercato come  lavoratore autonomo. I risultati di queste azioni, però, sono stati deludenti.

Secondo il Rapporto Italia 2017 di Eurispes, i ricercatori rientrati in Italia dal 2001 al 2009 sono stati solo 519, a fronte di un numero di cervelli “in uscita” molto più consistente. Secondo l’avvocato Luca Failla, socio fondatore di LabLaw, lo studio specializzato in Diritto del Lavoro e Relazioni Sindacali, il fallimento di queste politiche è legato a una netta carenza legislativa: «Pur essendo queste politiche altamente meritorie in linea generale, perché finalizzate a favorire il rientro di soggetti portatori di innovazione, talento e capacità acquisite all’estero o la  loro stabilizzazione, in un Paese come il nostro sempre più in perdita, l’impianto presenta delle falle. Le attuali leggi, infatti, prevedono che il “cervello di rientro” rimanga in Italia per un periodo che va dai 2 ai 5 anni affinché egli non perda tutti i benefici e non incappi in atteggiamenti sanzionatori. Il problema, però, sta nel fatto che la permanenza in Italia non dipende solo da chi, avvalendosi di tali leggi, decide di rientrare in Italia, ma anche dal lavoro che il soggetto in questione riesce a trovare e dalla possibilità di mantenerlo per questo lasso di tempo».

«Ovviamente non si sta parlando di manager da stipendi da un milione e mezzo di euro l’anno, ma di un’altra categoria di soggetti, che vengono ingaggiati con le regole del contratto a tutele crescenti in vigore dal 7 marzo del 2015, che prevede una tutela molto più bassa rispetto a quella prevista per chi è stato assunto prima di tale data e non contempla il reintegro in caso di licenziamento illegittimo. Per questi soggetti è più facile perdere quel posto di lavoro per il quale hanno deciso di rientrare, perdendo, quindi, anche i benefici fiscali. Sarebbe stato necessario, invece, prevedere un meccanismo di tutela, che potrebbe consistere nel mantenimento delle tutele precedenti e nel ripristino dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, per garantire il reintegro in caso di licenziamento illegittimo. Oppure, il legislatore potrebbe stabilire, che chi assume questi soggetti debba anche garantirne l’assunzione per tutti gli anni di lavoro previsti dalla durata del beneficio fiscale», prosegue Failla.

Cervelli di rientro e overeducation

Più del 50% dei laureati emigrati all’estero non intende tornare in Italia e questo, secondo Ceravolo, può essere dovuto al fatto che il nostro Paese non offre opportunità lavorative congrue alle aspettative dei giovani “cervelli”. «Il mancato rientro dei cervelli è legato, da un lato, al fatto che il nostro tessuto industriale si è molto impoverito nel tempo e dall’altro lato alla scarsa capacità del settore pubblico — anche per tutte le logiche di contrazione della spesa — a offrire opportunità professionali a persone brillanti, che sarebbero necessarie per lo sviluppo del nostro Paese. Ho intervistato per il mio libro (Cervelli in transito, n.d.r.) una ragazza laureata in Beni Culturali in Italia che ha trovato un lavoro coerente con i suoi studi in Francia. La Francia è un Paese bellissimo, ma ha un quarto del nostro patrimonio culturale. Non è possibile che un brillante laureato in Beni Culturali non riesca a trovare un lavoro decente in Italia».

Dei “cervelli di rientro”, dunque, solo un quarto è rimasto in Italia per più di 4 anni e questo risultato, nella maggior parte dei casi, è dovuto al fatto che la ricollocazione non è coerente con le qualifiche acquisite, ma anche alla carenza di risorse adeguate per far decollare dei progetti propri e all’opportunità di fare carriera. Nel 1976, l’economista Richard B. Freeman ha introdotto il concetto di overeducation, per indicare un impiego che non necessita delle competenze che acquisite con il proprio titolo di studio e che, nel tempo, porta alla “perdita di conoscenza” e, di conseguenza, alla perdita della propria qualifica: perché, se le conoscenze acquisite con lo studio non vengono impiegate, diventano, per gioco forza, obsolete.

L’esperienza all’estero: un valore aggiunto?

Nel 2012 l’ISFOL ha condotto un’indagine tra coloro che nel 2006 hanno conseguito un Dottorato di Ricerca in Italia e che lavorano nel nostro Paese. Il risultato è stato che circa la metà dei dottori intervistati non svolgevano attività di ricerca. Non tutti coloro che sono rientrati in Italia dopo un periodo di training all’estero, però, hanno avuto problemi di ricollocazione.

Giovanni e Floriano Pellegrino sono due fratelli che hanno lasciato l’Italia da giovanissimi, con l’intento di conoscere nuove culture e nuove lingue, ritrovandosi a fare più volte il giro delle cucine più importanti del mondo — dal Noma di Copenhagen al RyuGin di Tokyo — e, una volta tornati in Italia, hanno realizzato il loro sogno: aprire Bros’, un ristorante nella loro città, Lecce. «L’esperienza all’estero è stata determinante per il nostro percorso, perché ci ha consentito di cambiare il nostro punto di vista, ci ha messi alla prova e ci ha naturalmente fortificati. Abbiamo deciso di rientrare in Italia, perché avevamo voglia di portare tutto il bagaglio di conoscenze acquisite all’estero nella nostra terra, usandolo come valore aggiunto. Il rientro, per quanto rischioso, è stato più che positivo e, se tornassimo indietro, lo rifaremmo sicuramente».

Mentre Alessandro Barba, un giovane laureato in Scienze Politiche, dopo sei anni di esperienza lavorativa all’estero parla con entusiasmo del suo rientro in Italia. «All’estero ho imparato a cogliere le opportunità e ad essere più flessibile e meno ancorato all’idea del “posto fisso”, che in Italia è ancora molto forte. Gli italiani spesso tendono ad accettare lavori mal pagati purché sia loro garantito un salario fisso ogni mese. L’ultimo Paese nel quale ho lavorato è stato l’Olanda e lì, ad esempio, si punta molto di più al successo sul piano economico e, se per arrivarci bisogna lasciare un posto fisso e buttarsi in un progetto imprenditoriale, lo si fa senza troppe remore».

«All’estero ho cominciato a lavorare nel settore commerciale e delle vendite e, una volta tornato in Italia, sono riuscito a continuare in questa direzione, portando avanti progetti di marketing digitale e di vendite e buttandomi, poi, in un business tutto mio di gestione di case vacanze», continua Alessandro. «Nonostante in Italia sia più complesso portare avanti i propri progetti, se si crede davvero in qualcosa e se si ha un obiettivo è possibile realizzarlo anche qui, ovviamente con qualche difficoltà in più. Difficoltà che sono controbilanciate da tutti quegli aspetti positivi quali il clima, il buon cibo, la serenità nelle relazioni sociali, che l’Italia offre. I problemi principali presenti nel nostro Paese rispetto ad altri riguardano la meritocrazia, i salari bassi e l’innovazione. Penso, però, che sarebbe utile, da parte dei giovani, smetterla di lamentarsi e, dopo aver fatto esperienze all’estero, diventare il seme del cambiamento del quale l’Italia ha fortemente bisogno. Il nostro Paese ha grosse potenzialità e forti margini di riuscita: andare all’estero per imparare come sfruttare le nostre risorse e tornare in Italia credendoci e facendolo è l’unico modo per sovvertire il sistema attuale».

In definitiva, nel rientro dei cervelli e nella loro giusta collocazione sta il segreto del successo del nostro Paese: «La politica non ha capito che questo è l’asse strategico essenziale per il nostro futuro», conclude Ceravolo. «La valorizzazione della cultura, la valorizzazione delle nostre specificità e della nostra capacità innovativa è la chiave per riportare “a casa” i nostri cervelli. Abbiamo un settore pubblico composto da persone anziane e poco istruite, a differenza di altri Paesi: più giovani e molto più istruiti. Questo fa capire che il problema è a livello sistemico. Esistono stime sul futuro dell’Italia che parlano della desertificazione economica, che dovremo fronteggiare nel giro di dieci anni. Personalmente, non intendo essere così pessimista, ma per far tornare i “cervelli” in Italia, bisogna cambiare il sistema. Questo Paese deve puntare sull’innovazione. Abbiamo tante università che, nonostante tutto, continuano a formare persone di altissimo livello; ma tutti — dalle università al sistema della ricerca alle aziende private —  continuano ad essere sottofinanziati. Solo un approccio concreto all’idea di innovazione e di cultura potrà cambiare le cose».

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