A scuola di antibullismo

Tornare tra i banchi per imparare a sconfiggere nuove e vecchie forme di bullismo. Insegnanti e dirigenti scolastici, personale ATA e genitori: tutti chiamati a formarsi per proteggere le nuove generazioni da un mostro che colpisce le loro debolezze in modo sempre più vile e meschino. È notizia delle ultime settimane che a Pordenone – […]

Tornare tra i banchi per imparare a sconfiggere nuove e vecchie forme di bullismo. Insegnanti e dirigenti scolastici, personale ATA e genitori: tutti chiamati a formarsi per proteggere le nuove generazioni da un mostro che colpisce le loro debolezze in modo sempre più vile e meschino. È notizia delle ultime settimane che a Pordenone – dove il cosiddetto cyberbullismo ha mietuto a gennaio una nuova vittima – entro giugno sarà messa a disposizione delle scuole una task force di formatori antibullo. Mentre il Lazio, a inizio mese, ha approvato la prima legge regionale per la prevenzione e il contrasto al bullismo. Legge che – fra le altre cose – istituisce una Consulta regionale sul bullismo e un fondo speciale (con uno stanziamento di 750mila euro per i primi tre anni) per organizzare corsi, campagne di sensibilizzazione e gruppi di supporto rivolti al personale scolastico, ai genitori e ai ragazzi.

Un ragazzino italiano su due è vittima di bullismo o cyberbullismo

Dati allarmanti emergono dal report “Il bullismo in Italia: comportamenti offensivi e violenti tra i giovanissimi”, contenuto nell’ultimo Rapporto Istat. Un ragazzino su due (52,7%) è stato infatti vittima di bullismo o cyberbullismo. Nella maggioranza dei casi si tratta di ragazze tra gli 11 e i 17 anni. Una recente ricerca effettuata dal Censis in collaborazione con la Polizia postale ha evidenziato che il 52 per cento dei dirigenti scolastici (su 1.727 rispondenti) ha dovuto gestire casi di bullismo digitale. Per ora solo il 39 per cento degli istituti ha avviato azioni specifiche contro il fenomeno. E uno degli ostacoli principali risulta essere – per i Presidi – la scarsa consapevolezza da parte dei genitori.

L’evoluzione tecnologica amplifica la necessità di tenere alto il livello di attenzione. Sempre secondo la ricerca Censis, il 91 per cento dei giovani (14-18 anni) è iscritto ad almeno un social network e l’87 per cento usa uno smartphone connesso a Internet. Anche per questo il bullo di oggi ha sempre meno un volto, delle gambe, delle braccia. Più spesso si nasconde dietro uno schermo e non picchia a sangue ma sfodera l’arma delle parole. Ma non per questo fa meno male. Anzi. E’ quel male subdolo, capace di scavare nel profondo fino a portare anche a conseguenze estreme. Un male che, secondo gli addetti ai lavori, non si può debellare con la repressione. Per questo continua a far discutere il disegno di legge presentato nel gennaio 2014 per riconoscere il cyberbullismo come reato specifico e fissarne le sanzioni. Molte le perplessità manifestate sul suo contenuto.

“Non serve reprimere, ma insegnare a gestire l’identità virtuale”

Ce ne espone qualcuna il supervisore dell’Osservatorio Nazionale Cybercrime e Direttore del Master in Criminologia dell’ente di formazione IFOS, Luca Pisano, il quale ha portato in Parlamento, in Commissione Giustizia, i propri dubbi. Che motiva così: «Non serve una legge che si muova sul piano repressivo, le norme esistono già e si applicano regolarmente. C’è bisogno piuttosto di fondi e di interventi di psicologi, pedagogisti, assistenti sociali, che aiutino i ragazzi a concettualizzare e a preservare la propria reputazione digitale, facendo loro capire che quando sono online mettono in gioco la propria identità virtuale, che è emanazione della loro identità reale, dei loro valori».

Poi Pisano aggiunge: «Andiamo sempre a colpire il ragazzino, ma perché non colpiamo mai i social network? Pensate che un concetto pubblicato su Facebook può essere automaticamente trasportato su Instagram o Pinterest. Ciò vuol dire che – davanti all’abuso – la vittima dovrà mandare tre segnalazioni. Perché non obbligare i social a creare piattaforme di multi segnalazione, rivederne il funzionamento? Fra l’altro Facebook è l’unica piattaforma che risponde alle segnalazioni».

In attesa degli sviluppi legislativi, varie sono le iniziative contro il cyberbullismo. Fra queste, il portale Generazioni Connesse – promosso dal Ministero dell’Istruzione con partner quali Save the Children e Telefono Azzurro e il cofinanziamento della Commissione europea – che mette in campo una serie di attività di sensibilizzazione e di contrasto. Come la helpline chat, servizio rivolto alle giovani vittime di soprusi; e un percorso di autovalutazione che sta coinvolgendo 500 scuole italiane e che porterà alla scrittura di una I-policy che detti regole comuni, dall’utilizzo dei media alla formazione alle infrastrutture.

“Nelle scuole si insegni l’uso responsabile delle nuove tecnologie”

Fra i partecipanti al progetto c’è Mauro Cristoforetti, referente sul tema nuovi media per Save the Children e membro della cooperativa sociale E.d.i. (Educare ai Diritti), nata come spin-off della ong. Questi è impegnato da anni nelle scuole con attività di formazione all’uso responsabile delle nuove tecnologie. Una formazione che tocca aspetti tecnici, legali, ma soprattutto emotivi. «Nelle aule scolastiche simuliamo un processo per casi legati al cyberbullismo, e alla fine i genitori o gli insegnanti emettono una sentenza. Quindi risaliamo alle leggi da applicare, ma anche ai motivi che hanno spinto al gesto». Per Cristoforetti, più che porre divieti può essere utile «introdurre i ragazzi all’uso degli strumenti tecnologici sin dalla scuola in modo sicuro, insegnar loro come gestire la privacy e altro ancora».

Anche dalla Sardegna stanno partendo dei progetti sperimentali, da estendere a livello nazionale. Come “Genitore Digitale”, realizzato dall’Osservatorio Nazionale Cybercrime, in collaborazione con il Ministero della Giustizia e l’impresa Nuovi Scenari. L’obiettivo è quello di formare un gruppo di “genitori-sentinelle” sulle tecniche relative alle indagini online, per poi affidare loro il compito di controllare i profili social dei ragazzi (senza alterarli) e, in caso di contenuti a rischio, segnalarli all’Osservatorio. Il quale a sua volta si mette in contatto con la famiglia degli autori, cercando di risolvere il problema senza interventi repressivi. La metodologia è già stata applicata negli Stati Uniti da Parry Aftab, consulente di Facebook, CEO di Wiredsafety.org e collaboratrice dell’IFOS; e ha già ottenuto come risultato la riduzione dei comportamenti devianti manifestati dai minorenni americani in rete.

“I ragazzi devono comprendere il peso delle parole, oggi indelebili con un click”

La lotta al bullismo oggi deve passare anche e soprattutto attraverso la rieducazione al linguaggio. «Far comprendere ai ragazzi il peso delle parole, quanto possono ferire. Oggi più che mai che con un click rimangono indelebili».
È questo il punto centrale per un’efficace formazione antibullismo secondo Luca Pagliari, giornalista impegnato da vent’anni in campagne di sensibilizzazione e formazione nelle scuole. E convinto che i metodi di prevenzione e contrasto vadano necessariamente rivisti. «Gli incontri frontali non funzionano più.

I ragazzi hanno un’intelligenza molto più sviluppata di quanto si pensi e non sono più disponibili a sentir parlare di teoria. A volte scherzando agli eventi gli dico: ‘Vi hanno mai detto che un abbraccio è meglio di un messaggio su Whatsapp?’. Loro non hanno bisogno di sapere cosa è giusto e cosa è sbagliato, che la parola ‘troia’ non si dice. Hanno bisogno di esempi: gli devi raccontare che una ragazza si è buttata dalla finestra per quella parola».

Come fare? Luca Pagliari ha scelto la strada dell’originalità comunicativa, adottando un registro diverso dal solito, senza filtri. I suoi messaggi sono forti, provocatori. In tour per l’Italia porta spettacoli teatrali di grande impatto, che ricostruiscono storie finite male, ma anche vicende positive. E al momento sta preparando un docufilm (in collaborazione con la Polizia di Stato), che sarà usato come campagna contro il cyberbullismo per il prossimo anno scolastico. «Per fargli capire il messaggio, devi fargli vedere il cadavere. Solo questo – sostiene Pagliari – avvia un vero processo di consapevolezza. Io ricevo messaggi dai ragazzi che mi dicono che, dopo aver capito quanto le parole possono far male, hanno reintegrato una persona nel loro gruppo, oppure hanno chiesto aiuto. Questo non mi conforta perché io sono un giornalista e mi hanno visto un’unica volta, quindi vuol dire che non trovano nessuno disposto ad ascoltarli, né a scuola né nelle famiglie».

Troppe sono ancora le vittime sole nella loro battaglia. Qualche giorno fa a Reggio Calabria la madre di una di queste ha querelato la scuola del figlio che – davanti ad episodi di bullismo – si era limitata a consigliarle di accompagnare e andare a prendere il ragazzino dieci minuti prima dell’orario regolare. Chi dovrebbe intervenire troppo spesso resta a guardare. Un po’ per viltà, un po’ per paura di minare l’immagine positiva e rassicurante della scuola, un po’ per l’assenza degli strumenti e delle risorse per avviare efficaci azioni di contrasto.

“Manca una strategia unica e che tenga conto dei risultati”

Fra le maggiori criticità in tema di lotta al bullismo in Italia, c’è la mancanza di un’azione comune, che coinvolga l’intero territorio nazionale, in sinergia fra tutti i soggetti interessati, dalle scuole alle famiglie, dalla polizia postale agli enti locali. «Di contrasto al bullismo si parla da vent’anni e non mancano gli interventi, ma compiuti in maniera non costante e coerente.

In tutto questo tempo, non si è mai adottata una strategia unica, che tenga conto dei successi e dei fallimenti delle azioni fatte. Ogni scuola, ogni regione lavora a sé». Sono le parole di Giacomo Trevisan, coordinatore regionale per il Friuli Venezia Giulia dell’associazione M.E.C. (Media Educazione Comunità), responsabile della parte italiana del progetto europeo “Joining Forces to Combat Cyber Bullying in Schools”, finanziato attraverso il programma “Daphne” e che vede la partecipazione di cinque nazioni (Germania, Italia, Slovenia, Ungheria, Polonia), nell’ambito dell’European Antybullying Network, rete europea nata per unire le forze contro il comune problema.

Il Nord Europa da questo punto di vista fa scuola. Ad esempio l’Inghilterra sin dagli anni Novanta porta avanti strategie sistematiche, man mano validate o meno in base ai risultati. Come il fortunato “approccio non punitivo” (oggi “metodo del gruppo di supporto”), «che – spiega Trevisan a Senza Filtro – consiste, prima di arrivare alla punizione plateale o pubblica, nel cercare di attivare con gli studenti, inclusi gli autori di atti di bullismo, un processo di recupero del clima in classe e di inversione del circolo vizioso che porta all’esclusione e al danno psicologico per la vittima del bullismo». Oggi, con il progetto europeo, questa tecnica si sta sperimentando anche in Italia, a partire dal Friuli e dal Veneto.

Ma anche i giovani fanno la loro parte, con significative iniziative dal basso. Recentemente è nato MABASTA! (Movimento Anti Bullismo Animato da Studenti Adolescenti), idea di un gruppo di studenti leccesi di 14 e 15 anni che – dopo il caso di Pordenone – hanno deciso di far sentire la propria voce. Una voce che sta diventando un coro sempre più esteso, tanto che un’altra classe dell’Istituto ha voluto fondare SBAM! (Stop Bullying Adopt Music), uno modo per usare una passione comune ai giovani, la musica, come arma contro il bullismo.

Insomma, qualcosa sta cambiando, ma ancora tanto c’è da fare nella complicata sfida di “formare” le coscienze. Soprattutto nell’imparare a combattere il nemico con la sua stessa arma, il “fare rete”. Che in questo caso, però, non significa nascondersi dietro uno schermo, ma al contrario far fronte comune. E metterci tutti insieme la faccia, piuttosto che continuare a voltarla dall’altra parte.

[Credits photo: MaremmaNews].

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