Alla Faccia dell’apparenza

“Qualsiasi sia la mia estrazione sociale o età, io sono di fatto il presidente, l’amministratore delegato e il responsabile marketing dell’azienda chiamata Io Spa. La mia reputazione e la mia credibilità dipendono da quanto efficacemente riesco a comunicare la mia competenza e a distinguermi dagli altri determinando così la qualità del mio lavoro futuro” (Tom […]

Qualsiasi sia la mia estrazione sociale o età, io sono di fatto il presidente, l’amministratore delegato e il responsabile marketing dell’azienda chiamata Io Spa. La mia reputazione e la mia credibilità dipendono da quanto efficacemente riesco a comunicare la mia competenza e a distinguermi dagli altri determinando così la qualità del mio lavoro futuro” (Tom Peters)

Una volta era la foto sul curriculum. Un po’ come per quella della patente, la mettevi una volta e non ci pensavi più. Troppo giovane, troppo sportivo, “serio o sorridente”? Erano tutti problemi di poco conto. L’importante era “metterci la faccia”, per poi dimenticarsela. Metterci la faccia è un’espressione abusata, ma sempre valida. Oggi più che mai. Ma quanto conta il linguaggio del corpo, e del volto, in rete e quanta mistificazione c’è tra identità fisica reale e digitale? Nel corso degli ultimi anni gli esperti si sono soffermati parecchio su questo aspetto giungendo a due conclusioni diverse, ma entrambe piuttosto semplicistiche: secondo la prima corrente di pensiero, le fotografie che utilizziamo in rete devono essere tutte uguali. A parere della seconda, ogni Social Network vuole il proprio tone of voice. Se Facebook richiede foto più friendly, Linkedin ci spinge giocoforza ad utilizzare pose più professionali, mentre Twitter, con il suo avatar “minima”, ci consiglia di puntare tutti sui dettagli. Una parte della faccia, il taglio degli occhi, la bocca, la fronte spaziosa.

Va da sé che ogni consiglio è corretto, e che non abbiamo uno storico abbastanza significativo, a livello temporale, per poter dire se una tattica (perché di questo si tratta, non si pensi che si possa ignorare un tema di questa portata) funziona meglio di un’altra. Se Google Plus non permette ai propri utenti di utilizzare una fotografia che non sia quella del volto, un motivo deve pur esserci, e i professionisti, non solo quelli digitali, non possono più trattare questo tema a cuor leggero. Sono lontani i tempi in cui su Facebook ci si poteva permettere qualunque fotografia: da quella del proprio idolo sportiva, a quella dei figli. Ma mentre commentiamo, spighiamo, interagiamo siamo noi, e non quel José Mourinho che abbiamo usato come avatar a prendere la parola, perdere credibilità, cercare il consenso. “Metterci la faccia” non è più un’espressione metaforica perché i gradi di separazione si sono ridotti così tanto che oggi ci sembra di conoscere meglio alcune persone con cui conversiamo ogni giorno in rete di certi collaboratori che siedono accanto a noi in ufficio.

Il personal branding ha rotto le palle?

Il confine tra realtà e mistificazione è sottilissimo. In un bellissimo articolo pubblicato su Yunikon Design, Laura Lonighi spiega “Perché il Personal Branding mi ha rotto le palle“. Vale la pena sottolineare alcuni passaggi di questo articolo, perché ne possiamo trarre degli spunti molto interessanti per approfondire ulteriormente il tema.

“Il problema è che la promozione non può essere considerata contenuto e che la prima supera di gran lunga la seconda. Farsi i selfie con il personaggio più o meno famoso non è fare personal branding. Ammorbare con il fatto che devi avere l’immagine di profilo su Facebook che ti rappresenti in pieno non è fare personal branding. Pubblicizzare strenuamente i tuoi corsi, i tuoi ebook, i tuoi servizi, non è fare personal branding. È poracceria. È rompere le palle. Il Personal Branding lo fa il tuo cliente”.

In quest’ottica sarebbe curioso rivedere un dato: in un articolo del dicembre 2012, The Wall Street Journal indicava il personal branding come uno dei quattro fattori must have del 2013. Secondo l’articolo sono sempre di più le aziende che assumono persone fortemente riconoscibili, con un buon network di influenza, sopratutto se capaci di esercitarla sui social media a nome del datore di lavoro. Tutti preferiamo avere relazioni di lavoro (e non solo) con coloro che hanno una forte reputazione, che comunicano affidabilità e su cui possiamo contare.

Ma come si guadagna questa credibilità? Davvero basta una fotografia?

Probabilmente non è sufficiente, e la Lonighi ha ragione ad affermare che il Personal Branding è nulla senza contenuto. Eppure le immagini sono il fulcro di tutta la nostra comunicazione: le parole ridotte all’osso, i testi sempre più abbreviati. Importanti e prioritari sono i contenuti ma non possiamo negare che oggi più che mai curare la propria immagine sia strategico. Non a caso, negli Stati Uniti, il photobranding è un vero e proprio business, che vede in prima linea il ritrattista Michael Cavotta, secondo il quale:

Still, we’re just talking about headshots, right? Not exactly. You see, a headshot can be nothing more than a picture of your head; photobranding takes it to a whole different level. Why? Because first impressions happen fast.

Abbiamo sempre meno tempo per fare una buona prima impressione. Una ricerca di Harvard sostiene che questo tempo sia di 39 millesimi di secondo. Un tempo più veloce del pensiero. Ma se la prima impressione avviene in maniera così naturale, e così veloce, è altrettanto vero che genera in noi un solco profondo, destinato a durare per molto tempo. Una foto non coerente è un’impressione sbagliata. È un sì o un no. Che può essere decisivo in fase di assunzione, contrattazione, negoziazione o semplicemente quando si tratta di scegliere un collaboratore. Sempre più professionisti scelgono di affidarsi ad un fotografo per le immagini da utilizzare sui social, anche perché le occasioni di discussione, in rete, si sono moltiplicate: lavorare sulla propria immagine in modo tale che racconti il meglio di noi fin dal primo approccio può essere un elemento vincente nella nostra strategia. Basti pensare alle aziende che ad un certo punto hanno capito che bisognava metterci la faccia per essere più credibili e hanno fatto scendere in pista i fondatori: Giovanni Rana con il suo volto rassicurante per esempio (siamo nel 1992) o il cambiamento di rotta di Banca Mediolanum con il passaggio di testimone dal padre al figlio, anche nelle pubblicità.

Il fotografo e il consulente di immagine

La foto profilo deve farci riconoscere. Ecco perché, oltre ad un bravo fotografo, diventa fondamentale il ruolo di un consulente di immagine, a patto che questo sappia tradurre in uno stile, un tratto visivo distintivo, a volte completamente inaspettato. Freddy Mercury si era fatto crescere i baffi per nascondere i dentoni, Coco Chanel aveva cominciato a portare quel taglio corto che fece scuola dopo esserci bruciata inavvertitamente i capelli sul fornello. Un tratto distintivo che si ripete avrà più probabilità di venire ricordato. Nico Caradonna – consulente di immagine – ci spiega quanta importanza abbia, in questo momento, la scelta di dettagli che vanno oltre il look: 

Per tanto tempo il termine “immagine” ha assunto una connotazione negativa, perché eravamo portati a pensare che fosse sinonimo di apparenza anziché identità. Poi la digitalizzazione, la crescente attenzione sui personaggi e la necessità di identificarsi in modelli, hanno trasformato questa parola in qualcosa di formativo. Nel costruire un’identità è fondamentale chiarire con il nostro “io” quello che vogliamo trasmettere della nostra personalità. Successivamente è importante curare la percezione che gli altri hanno di noi, in particolare concentrandoci sulla nostra faccia. È necessario interpretare un ruolo, fatto di idee ed azioni, ma soprattutto di stile.

Esistono personaggi famosi che hanno studiato e messo in pratica questa logica di personal branding in maniera vincente, creando col binomio faccia-occhiali – Caradonna è conosciuto come l’ottico del web, ndr – delle vere e proprie icone. Basti pensare al minimalismo della montatura di Steve Jobs, all’effetto materico e forte degli occhiali da vista di Aristotele Onassis e alla sensualità della forma a farfalla degli occhiali da sole di Audrey Hepburn. Parallelamente a questi, ci sono altri personaggi che hanno trascurato l’impatto di un occhiale sulla percezione di sé. Adeguandosi a mode del momento o assecondando accordi commerciali, alcuni sono risultati distonici con la loro reale personalità, altri hanno perso l’opportunità di essere identificati mettendoci la faccia”.

L’immagine è il primo touchpoint con il mondo, essenziale elemento su cui si forma la percezione che le altre persone hanno di noi. “Una carta d’identità che parla di noi ma soprattutto per noi – ricorda Matteo Pogliani, autore del libro Influencer Marketing. Immagine che dinanzi al mondo web diventa l’insieme di tutto ciò che ci rappresenta e mostriamo al mondo circostante: le nostre foto, i profili social, il sito web, i contenuti che creiamo. Non importa se la percezione che ne deriva sia veritiera o meno, quella è e quella resterà in mente a chi si approccia a noi. Non va mai dimenticato che ci vogliono anni per creare un’immagine positiva, ma basta poco, pochissimo, per segnarla in negativo”.

È su questo microcosmo che si fonda gran parte della reputation di ognuno di noi. Reputation che è l’elemento essenziale – prosegue Pogliani – per farci ottenere un lavoro, collaborazioni, divenire riferimento per la propria cerchia. Un capitale reputazionale che si trasforma in reale moneta da spendere. Una tesi sostenuta anche dal noto blogger tecnologico Michell Zappa: il bancomat del domani lo sosterremo a colpi di immagine e reputazione. Siamo pronti? Sarà davvero così o stiamo solo mistificando la realtà? Nel frattempo maglio assicurarci che la nostra immagine, anche quella che usiamo sui social, racconti la nostra storia, le nostre competenze e la nostra credibilità. Non quella di qualcun altro.

(Credits photo: www.robadadonne.it)

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