L’amore è socialmente razzista

La donna, che Jennifer non poteva certo riconoscere, fu quella che invece venne incontro a me: Sophie Pasquier-Legrand, la mia collega di filosofia, specializzata in Ludwig Wittgenstein; una bruna vivace, maglioncino a V di cashmere grigio, jeans, stivali e orologio di Hermès, giubbotto di pelle della stessa marca: una lezione di eleganza, modello di raffinata […]

La donna, che Jennifer non poteva certo riconoscere, fu quella che invece venne incontro a me: Sophie Pasquier-Legrand, la mia collega di filosofia, specializzata in Ludwig Wittgenstein; una bruna vivace, maglioncino a V di cashmere grigio, jeans, stivali e orologio di Hermès, giubbotto di pelle della stessa marca: una lezione di eleganza, modello di raffinata classicità. Quella parigina nel cuore, trasferitasi a Lille per pragmatismo, aveva sposato in seconde nozze proprio un avvocato del foro di Lille; iniziava una frase su due con «io e mio marito».

«Com’è piccolo il mondo!», esclamò. «Sembra che tutto il liceo di Gambetta sia al Carnevale. Sai, sei già il quinto collega che incontro!».

«Forse, perché gli insegnanti sognano di essere adulati come quei giganti!», risposi.

«Sempre la battuta giusta, caro François! Che meravigliosa festa popolare, vero?».

«Vero!»

«Io e mio marito non ce la perderemmo per nessuna ragione al mondo! È già la quinta volta che ci veniamo, e non ci stanchiamo mai… i bambini sono estasiati… Ma dove ho la testa, dimentico le basi, voi non vi conoscete: Henri Pasquier, mio marito, François Clément, mio collega di filosofia, il parigino di cui ti ho parlato, e i bambini, Balthazar, Bérénice…»

Fissò Jennifer. Il silenzio che seguì mi sembrò durare un’eternità. Non risposi, incapace di pronunciare il nome della piccola parrucchiera davanti ai Pasquier, che avevano scelto i nomi dei loro figli con la stessa raffinatezza dell’autore che titola le proprie opere, e che, immaginavo, non avrebbero mancato di disprezzare quello di Jennifer […]  il cui pessimo gusto era annunciato dal suo nome e dal suo abbigliamento.

(Philippe Vilain, Non il suo tipo, Roma, GREMESE, 2012).

 

In amore non scegliamo. La provenienza sociale, il nostro contesto culturale e il nostro ambiente di lavoro lo fanno per noi. E non si tratta solo della funzione esotica e ancestrale svolta dal matrimonio e finalizzata alla gestione delle ricchezze, di cui Roland Barthes scrisse nei saggi Frammenti di un discorso amoroso Miti d’oggi; l’attrazione e il sentimento si sposano quasi sempre con l’omogamia, con basi comuni e interessi convergenti; e difficilmente scegliamo un partner proveniente da un contesto sociale e lavorativo diverso dal nostro.

Quali sono, dunque, le ragioni in base alle quali scegliamo una persona piuttosto che un’altra? Ne abbiamo parlato con Philippe Vilain, scrittore e saggista francese, vincitore del Prix Francois Muriac nel 2006 e autore di Pas son genre (tradotto in Italia con il titolo Non il suo tipondr), edito nel 2012 in Italia da Gremese e dal quale il regista Lucas Belvaux ha tratto la pellicola: Sarà il mio tipo? E altri discorsi sull’amore, che sarà presentata il prossimo 8 febbraio all‘Institut Français di Napoli.

Il romanzo di Vilain, un’esplorazione della coscienza amorosa, racconta la relazione tra François Clément, esperto di filosofia tedesca e Jennifer Dumont, parrucchiera divorziata e con un figlio. E indaga su uno dei più grandi tabù di sempre: l’amore è socialmente razzista?  Idealista, romantico, votato alla speculazione il primo; concreta, pratica, propensa al divertissement la seconda. François e Jennifer sono diversi in tutto: l’appartenenza, le ambizioni, i gusti; gli stessi modi di esprimersi. E, attraverso un lungo monologo interiore, François tenterà di comprendere la risposta all’annosa domanda: può un filosofo amare una parrucchiera?

Philippe Vilain, l’amore è dunque condizionato dal nostro contesto di provenienza?

Si tratta di una questione che mi interessa molto e che ho tentato di illustrare nel mio romanzo Pas son genre, facendo riferimento a studi sociologici relativi alla scelta del coniuge. Fino a un certo punto, credo che la scelta del partner sia condizionata dal nostro contesto di origine e, per estensione, dalle ineguaglianze sociali e alla sfera professionale in cui ci evolviamo. Numerosi studi sociologici hanno mostrato la rilevanza statistica di questo fenomeno. È noto, infatti, che prima dell’osservazione dei fatti sociali, la formazione delle coppie avviene in situazioni di omogamia, e cioè «Nella cornice stretta della stratificazione sociale», come spiega il sociologo durkheimiano Alain Girard nel saggio Le choix du conjoint. Une enquête psychosociologique en France.

E dunque, ci incontriamo fra noi, nello stesso contesto, nello stesso mondo, nella stessa sfera, nella stessa casta: ma come potrebbe essere diverso? Non esiste nulla di più prevedibile. La stessa sociologia ha constatato il carattere minoritario dell’eterogamia, degli incontri atipici, che risultano essere «Frequentemente i fatti di un individuo in una fase di mobilitazione sociale, o in fase di inserimento professionale inedito» (mi riferisco a Michel Bozon e a François Héran, autori essenziali nell’ambito della sociologia della famiglia); il caso più frequente è quello di transfuga di classe degli individui che, per esempio, sono usciti da un contesto d’origine modesto in seguito agli studi, per sposare la cultura di un contesto sociale superiore. E dunque, che l’amore sia condizionato e determinato può apparire triste, perché deturpa il nostro ideale romantico, secondo cui tutto è possibile all’interno di una relazione, e tuttavia è una realtà: il caso ha poca rilevanza nell’incontro — o, comunque, si tratta sempre di un caso oggettivo — e le ineguaglianze sociali si verificano in amore: a dire il vero, raramente incontriamo qualcuno a caso.

Qual è il ruolo che la cultura di appartenenza svolge, nel determinare le nostre scelte sentimentali?

Il ruolo della nostra cultura d’origine è primordiale, dal momento che essa ci trasmette una visione del mondo, dei valori, delle abitudini e che, a nostra insaputa, orienta i nostri gusti e le nostre scelte; insomma, è la nostra cultura che agisce in noi, che ci fa pensare all’amore e scegliere un certo partner piuttosto che un altro. Certo, siamo dotati di un’individualità, di una personalità che ci differenzia all’interno di un gruppo, ma siamo anche, più o meno coscientemente, tributari di una visione del mondo che ci precede e alle volte ci sorpassa e di cui siamo i rappresentanti.

Così, per esempio, non è solo l’amore che ci impone di sposarci, quanto piuttosto la volontà di una società e di una cultura imposta, di cui siamo i rappresentanti e i traghettatori; non si tratta solo del nostro desiderio di sposarci, quanto piuttosto della nostra cultura, della nostra religione, della nostra sfera, che ci impone di effettuare questa scelta: la nostra volontà è, così, una volontà individuale limitata, che desidera fino a un certo punto; è una volontà sociale che, nell’interesse di un gruppo precostituito e attraverso la nostra individualità, desidera. Questo non significa che non prendiamo parte alle scelte che facciamo, quanto piuttosto che, se non siamo liberi di scegliere ciò che vogliamo, se siamo costretti da tutta una serie di fattori determinanti, in questa stessa limitazione abbiamo pura libertà di scelta. E tuttavia, se la nostra cultura d’origine ci determina, questo non avviene solo per noi, ma allo stesso modo per gli altri, giacché la nostra cultura ci assegna a un territorio sociale e a un perimetro culturale da cui è difficile uscire: attraverso lo sguardo dell’altro siamo assegnati a una residenza sociale e culturale. Scegliamo, ma siamo anche e soprattutto scelti.

Scegliamo, dunque, il nostro partner per continuità o divergenza rispetto a ciò che il nostro contesto di origine ci induce a fare?

In effetti, si tratta di due possibilità. Tutto dipende dalla relazione che instauriamo intimamente con il nostro contesto: se pensiamo che questo ci favorisca sufficientemente e che ci dia piena soddisfazione, tenteremo di farlo perdurare, scegliendo un partner che incarnerà i valori di questo contesto, e che noi riprodurremo per assicurargli una continuità; ma se, per vendetta, abbiamo delle aspirazioni divergenti rispetto a quelle del nostro contesto di provenienza, cercheremo allora di estrarci e scegliere un partner al di fuori di esso: un extra-comunitario, come si dice nello sport. È il caso tipico di transfuga dalla classe, per esempio degli individui che provengono da un contesto aperto, colto, che dopo essere giunti agli studi superiori, possono avere il desiderio di migrare socialmente, di distinguersi, di scegliere di tradire il proprio ambiente, scegliendo un partner del proprio stesso livello di studi, ma proveniente da un contesto distinto, che non corrisponde alle aspirazioni del proprio ambiente d’origine: questi individui sono quelli che chiamerei migranti di cuore.

Cosa accade quando scegliamo un partner che Non è il nostro tipo?

I casi sono innumerevoli e bisognerebbe passarli in rassegna per rispondere alla domanda senza cadere nel generalismo. Ho la tendenza a pensare, però, che se scegliamo un partner, questo avviene perché, in principio, pensiamo giustamente che egli sia il nostro genere, o anche che il genere potrà essere trasceso dalla sola forza del sentimento amoroso. Questa, però, potrebbe essere un’illusione e al tempo stesso un errore di valutazione, perché il sentimento si modifica col tempo e il sociale — che si apre a noi — finisce di solito per trionfare sull’amore.

L’amore, dunque, non è attrazione fra contrari?

Sfortunatamente, l’amore è raramente attrazione fra contrari, perché al di fuori della propria virtù, l’amore è una costruzione sociale, un interesse, per non dire un interesse a lungo termine: lo si considera sulla durata, non nel presente, perché esso — eterosessuale o omosessuale — è visceralmente omogamo; per durare, è necessario intendersi su un certo numero di interessi comuni, come recita il famoso detto «Chi si somiglia si piglia!». È questa la ragione per cui la passione è preferibile all’amore, perché la passione è meno interessata, meno calcolatrice, meno avara socialmente, perché essa non attende che al piacere, sotto tutte le sue forme, con l’altro. La passione tenta di fare gioire l’altro e di fare gioire sé. Mentre l’amore cerca soprattutto il conforto con l’altro, la comunione narcisistica di beni e interessi. Per dirla diversamente, l’amore è sociale quanto la passione è asociale, astrazione dei contrari.

Per dirla tutta, credo che l’amore limiti l’amore. Questa situazione di omogamia comprende, al tempo stesso, il suo proprio limite, le sue frontiere, dal momento che ci condanna in qualche modo a non amare che che delle persone che ci somigliano culturalmente e socialmente e che hanno interessi simili ai mostri; sotto un certo aspetto, questo piacere ci aliena da un certo tipo di individuo creando, di fatto, le condizioni per una trascendenza impossibile. Nonostante l’amore debba essere, per definizione, l’occasione per la trascendenza, il luogo dell’alterità assoluta, l’amore omogamo si restringe alla similarità e, così facendo, si allinea all’idea stessa di un amore predefinito culturalmente e socialmente. In questo senso, nulla è più segregativo dell’amore. Esso non ama chiunque; sotto un certo aspetto l’amore è razzista, nell’escludere sin dapprincipio colui il quale non ci somiglia socialmente. Gli stessi casi di mescolanza etnica in una coppia sono un’illusione, allorché i partner, pur provenendo da nazioni diverse, sono socialmente simili. A questo proposito, penso che il vero razzismo sia meno etnico che sociale.

Secondo Philippe Vilain, perché ci si innamora?

Le ragioni dell’innamoramento sono molteplici quanto indefinite. Non so perché ci si innamori, so solamente che innamorarsi significa entrare nella finzionalità della vita, accedendo a una dimensione superiore dell’essere. Non credo alla socialità dell’amore — aspetto disprezzabile del sentimento —, credo alla forma più passionale dell’amore, la più spontanea e disinteressata, intendo dire la più romantica. La maggior parte dei miei romanzi mette in scena, d’altronde, personaggi opposti sotto diversi aspetti, che provengono da una categoria sociale, anagrafica o da una nazione differente. Solo nei romanzi però tutto è possibile, non nella vita.

Simone Weil disse che il sogno dell’uomo del Novecento è di diventare una macchina. Per quale ragione un intellettuale si interroga oggi, nell’era della quarta rivoluzione industriale, sul significato dei sentimenti, sul cinismo?

Secondo me, l’intellettuale interroga l’amore manifestando un dubbio a proposito delle sue rappresentazioni, di un un certo scetticismo nelle intenzioni e dei motivi alla base del sentimento, come testimoniano i miei romanzi che tutti, in un modo o nell’altro, tentano di spiegare l’amore. L’amore si lega, dunque, a un’illusione della sua rappresentazione. Come un trucco di magia che si prenderà gioco di noi, e che, per reazione, genera due forme di risposta: una passiva, spettatrice, che si accontenta di applaudire al passaggio dell’amore e di impressionarsi puerilmente davanti alla sua magia, ripetendosi: «Mio dio, che bello!»; e una attiva, intellettuale, volta a comprendere la bellezza di questo amore, ad analizzare come e perché l’illusione si produce. Mi sembra che la comprensione sia sempre una forma superiore di meraviglia, che permette di viverla in una dimensione sensibile e intellettuale, e cioè nella piena intelligenza lucida: e più si comprendono le cose, più ci si approccia alla loro bellezza, meno ci si lascia abbindolare dalla loro illusione. È una questione di esigenza rapportata a se stessi, per comprendere evidentemente come si genera un certo dolore: come ha riportato meravigliosamente René Char, «La lucidità è la ferita più vicina al sole». Ma è esattamente questa lucidità dolorosa che ci fa avanzare, accedere a un’altra dimensione dell’essere: non è la negazione che ci rinchiude in una credenza falsa dell’amore.

Io non parlerei, quindi, di cinismo per quanto mi riguarda, quanto piuttosto di scetticismo. La visione lucida dell’amore, sviluppata in alcuni miei romanzi, la demistificazione dell’amore asservito all’analisi, la decristallizzazione amorosa, l’apparente insensibilità dei miei narratori, lo scetticismo delle giustificazioni amorose, la mancanza di di fede nelle relazioni sincere, il modo di mettere in esame la virtù dell’amore e di fare entrare i sentimenti nell’era del sospetto, possono anche legarsi a una forma di anti-romanticismo, ma non si tratta di questo: sono semplicemente un romantico lucido, voglio dire, un sognatore che sogna senza sognare.

Mi domando, però, se lo scetticismo e il cinismo non siano forse gli strumenti necessari che l’intelligenza mette in campo per comprendere un’epoca in cui le relazioni amorose, favorite e moltiplicate sotto ogni aspetto, sembrano adagiarsi maggiormente su un legame debole, piuttosto che su una credenza veritiera nell’amore. Senza dubbio la precarietà sociale non è estranea alle motivazioni che partecipano alla ricerca amorosa e che fanno entrare nei sentimenti un interesse diverso rispetto a quello amoroso, al punto di snaturare l’amore stesso: evidentemente il sociale gioca un ruolo velato nell’amore. E, in tutto questo, il cinismo non implica non credere tanto nell’amore, quanto piuttosto sembrare di crederci per buona coscienza, al fine di proteggere interessi propri. Credo anche che siamo degli esseri paradossali, e che siamo sempre i due lati della medaglia di una stessa cosa: non nasciamo cinici, ma lo diveniamo per avere sperato troppo, creduto troppo, idealizzato troppo, benché il vizio che crediamo di individuare nel cinismo non è mai alimentato che attraverso la virtù stessa.

 

(Credits photo: Philippe Vilain)

 

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