Anche la crisi va al cinema: il lavoro sul grande schermo

Secondo Hitchock il cinema “è la vita con le parti noiose tagliate” ma è anche “il nastro dei sogni”, a detta di Orson Welles. Il cinema, di qualsiasi genere esso sia, è uno sguardo sulla società; il prodotto è un punto di vista che non può prescindere da essa. Ad oggi, questa società è anche […]

Secondo Hitchock il cinema “è la vita con le parti noiose tagliate” ma è anche “il nastro dei sogni”, a detta di Orson Welles. Il cinema, di qualsiasi genere esso sia, è uno sguardo sulla società; il prodotto è un punto di vista che non può prescindere da essa.
Ad oggi, questa società è anche (forse soprattutto) quella scossa e provata dalla crisi economica. Gli ultimi dati ci dicono che la disoccupazione nell’Unione Europea è pari al 9,9%, in particolare nella zona euro è all’11,4%. In Italia il tasso di disoccupazione è intorno al 12% mentre in Francia è salito a più del 10%, raggiungendo il suo massimo storico.
Ed è proprio dalla Francia che arriva Due giorni, una notte, l’ultimo film dei fratelli Dardenne: come tema il lavoro, la sua perdita o la sua assenza.

Ecco così che ai prossimi Oscar, tra le nomination come miglior attrice protagonista, compare Marion Cotillard che nel film interpreta Sandra: un marito, due figli e un impiego presso una piccola azienda di pannelli solari. Ma lei, con un passato di depressione, è considerata l’anello debole della catena produttiva e allora viene licenziata. Anzi peggio, il capo scarica la responsabilità di questa decisione sui colleghi della donna che riceveranno un bonus di 1000 euro se voteranno per il suo licenziamento. Sandra deve così lottare per il suo posto di lavoro e convincere i suoi colleghi a rinunciare al “premio” in denaro. Sarà una guerra tra poveri, a colpi di umiliazione e senza più solidarietà e dignità.

Non è la prima volta che i Dardenne trattano, nel loro cinema, il tema del lavoro. Già con La Promesse avevano affrontato il lavoro clandestino e con il successivo Rosetta, in cui tornarono a parlare di occupazione, conquistarono una Palma d’Oro a Cannes e soprattutto una legge a tutela del lavoro giovanile che prese il nome del film, poiché era scaturita dalle discussioni che questo aveva suscitato.
Non sarebbe male se, anche questa volta, si potessero sfruttare i riflettori e il palcoscenico di questi Oscar 2015 per attirare l’attenzione sulla situazione lavorativa attuale, su questa crisi che coinvolge Europa e Americhe, sulle sue conseguenze umane e sociali. Confidiamo, dunque, nel potere del cinema.

Anche l’Italia aveva designato come film rappresentante il cinema italiano alla selezione per l’Oscar per il miglior film straniero, che poi è stato escluso dall’Academy, un lavoro che ha suscitato non poche polemiche: Il Capitale Umano di Virzì, un ritratto abbastanza crudele della società attuale.
Sempre in Italia, negli ultimi anni, sono usciti diversi film sul lavoro, sul precariato e sulla disoccupazione: da Santa Maradona a Tutta la vita davanti, da Generazione 1000 euro a Smetto quando voglio. Sono in gran parte, se non tutte, commedie forse perché noi italiani, almeno secondo lo stereotipo, ridiamo un po’ su tutto almeno fin quando non ci viene da piangere.

Questi ultimi film sull’argomento ci riportano alla mente tutto il filone del neorealismo italiano e i grandi registi del dopoguerra, anche se con le dovute differenze.
È rimanendo, però, nel campo della commedia all’italiana che si può notare un accostamento rischioso ma calzante. Prendiamo due film: I soliti ignoti (M.Monicelli) e Smetto quando voglio (S.Sibilia)Il primo è del 1958, il secondo del 2014. In entrambi troviamo una rocambolesca banda protagonista della vicenda, il racconto della quotidianità, la drammaticità che si vede sullo sfondo della commedia, la critica alla società. Si potrebbe azzardare che i trentenni protagonisti di Smetto quando vogliosiano i nipoti, in età e carisma, de I soliti ignoti.
Una differenza, però, c’è. I protagonisti del film di Monicelli compiono una parabola perfettamente speculare agli altri: non riuscendo a rubare si ritrovano a dover lavorare. Ma si sa, i tempi cambiano e il cinema, implacabile, ci restituisce l’immagine della società che vede.

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