Apprezzo i vostri sforzi ma pago i vostri risultati

Secondo Julio Velasco, ormai celebre per le sue interessanti conferenze sulla cultura degli alibi quasi quanto per le sue vittorie in Nazionale, la differenza tra vincenti e perdenti tra le centinaia di atleti da lui incontrati nel corso della carriera è che i vincenti trovano una soluzione al problema da affrontare mentre i perdenti cercano […]

Secondo Julio Velasco, ormai celebre per le sue interessanti conferenze sulla cultura degli alibi quasi quanto per le sue vittorie in Nazionale, la differenza tra vincenti e perdenti tra le centinaia di atleti da lui incontrati nel corso della carriera è che i vincenti trovano una soluzione al problema da affrontare mentre i perdenti cercano un alibi per giustificare le sconfitte.

Ma cos’è un alibi? In questo caso, l’etimologia non ci dà un grande aiuto perché la parola alibi,  frutto della crasi tra i due termini latini alius e ibi, vuol dire solo “altrove”, un altrove che in campo penale rappresenta la prova inconfutabile che la persona accusata di un reato non ha potuto commetterlo perché non si trovava sul luogo del misfatto. Una prassi estensiva ha poi fatto divenire l’alibi sinonimo di scusa e giustificazione, un escamotage da usare in ogni occasione, un artifizio che ormai permea la nostra mentalità, ad ogni livello culturale.

E così se un esame va male la colpa è del professore che è stato stronzo, se non si supera il concorso per notaio è perché ci sono troppi raccomandati o perché non si ha un padre notaio, se la squadra del cuore non vince una partita è colpa dell’arbitro che non capisce niente o è stato comprato, quando non si arriva persino a intentargli una causa civile per danni, come ha fatto qualche anno fa un tifoso di una importante società calcistica di cui possedeva alcune azioni e il cui valore, a suo dire, era diminuito a causa della (iniqua, ca va sans dir) sconfitta subita dalla sua squadra.

Ma l’alibi spesso viene ulteriormente (ab)usato per tentare di minimizzare l’entità dei reati commessi quando le colpe di cui si è accusati sono talmente evidenti da non potere essere negate tout court, snaturandone ulteriormente il significato.

E in questo campo purtroppo molti dei nostri attuali esponenti politici si sono distinti per l’originalità delle loro difese. A tutti noi è capitato di sentir proferire in pubblico frasi quali “Io avrei rubato?” come se il non detto fosse “Ma come si può considerare reato un comportamento ormai divenuto prassi come quello di utilizzare i soldi dello Stato per interessi personali?”.

Spiccano anche per creatività le figure di difesa comparativa quali “Io? Ma se quell’altro ha rubato molto di più!”, come se la quantità facesse la differenza. Se rubi, rubi. Punto.

Avevano forse visto o solo previsto situazioni del genere gli autori delle parole di una canzone di Mina quando scrivevano: “alibi falsi e inutili, improbabili parole senza verità che si aggrappano a ragioni troppo fragili”, o l’indimenticabile Giorgio Gaber che cantava: ”per raggiungere  ogni cosa mi ci vuole un alibi”?

Gli alibi in azienda

In campo aziendale, poi, l’uso dell’alibi è ancora più frequente perché in quel caso la posta in gioco è spesso molto più alta: in pericolo non c’è la ramanzina del genitore o la reprimenda del gruppo ma la continuità del posto di lavoro, in alcuni casi unica fonte di sostentamento del lavoratore e della sua famiglia.

Gli esempi di questo genere di comportamento vissuti in azienda davvero non si contano ma uno in particolare mi è rimasto impresso soprattutto per la modalità con la quale il responsabile ha gestito e smontato l’alibi. In un meeting di fine anno nel quale si tiravano le somme delle vendite, le si comparavano con il budget e se ne esaminava la qualità in termini di redditività, il Vice Presidente Sales & Marketing, persona di grande esperienza sul campo ed avvezza alle malizie tipiche dei venditori, fu estremamente efficace. I risultati erano naturalmente collegati all’importo del bonus annuale, motivo per cui i commerciali presentarono una dettagliata fotografia dell’andamento negativo dei mercati, delle ripercussioni della crisi mondiale sul loro operato, dell’aumento del costo del petrolio. Il VP ascoltò con grande attenzione, in silenzio, e quando la presentazione terminò si alzò e disse: “Apprezzo come mai prima d’ora i vostri sforzi” e, dopo una pausa ad effetto che aveva acceso per un secondo le speranze dei suoi collaboratori, chiosò: “ma pago solo i vostri risultati”.

Allo stesso modo è spesso percepita come corretta la sanzione o la critica attribuita ad un comportamento altrui mentre l’indulgenza scatta in automatico quando gli attori protagonisti siamo noi.

E, ancora, gli stessi oratori che anestetizzano platee di colleghi o collaboratori con presentazioni noiose monocorde e li annichiliscono a suon di slide impersonali, fitte di caratteri e numeri, sono i primi a mettere alla berlina l’oratore di turno quando si trovano dall’altra parte del palcoscenico.

Tra le parole di gran moda negli ultimi anni spicca “empatia” che altro non è che la capacità di mettersi nei panni altrui, di pensare come gli altri. Si tratta ahimé di una dote prevalentemente innata ma, come ogni cosa, esistono possibilità di apprenderne l’utilizzo con alcune tecniche. Questo probabilmente dovrebbe essere uno dei focus formativi e di change management delle aziende nei prossimi anni.

In ogni campo della nostra vita sociale l’effetto sarà positivo e ci aiuterà a sentire come se gli altri fossimo noi. Un po’ di esperienza sul campo riuscirà poi magari a non farci pensare che in Spagna si beve solo sangria e che in Italia si suona ovunque il mandolino, specie in un’epoca in cui (geniale frase attribuita a Diego Abatantuono) il più famoso rapper del mondo è bianco e gli svizzeri vincono la Coppa America di vela.

 

(Photo credits: unsplash.com/David Schap)

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