Davvero la cultura deve sporcarsi le mani con il marketing?

In un momento storico in cui emerge la necessità di valorizzare la cultura in termini di fruizione rapida ed economica, il marketing culturale continua a essere il mezzo più utilizzato per la rinascita del settore turistico, sempre più in crisi. Secondo stime diffuse da Il Sole 24 ore, infatti, il 2016 è stato l’annus horribilis […]

In un momento storico in cui emerge la necessità di valorizzare la cultura in termini di fruizione rapida ed economica, il marketing culturale continua a essere il mezzo più utilizzato per la rinascita del settore turistico, sempre più in crisi. Secondo stime diffuse da Il Sole 24 ore, infatti, il 2016 è stato l’annus horribilis dei musei, con il Louvre di Parigi che è sceso dai 9,7milioni di visitatori del 2012 ai 7,3milioni dello scorso anno: un picco che ha interessato soprattutto i turisti provenienti da altri Paesi e che ha posto fine all’ambizioso progetto di Jean-Luc Martines, Presidente e Direttore del museo francese, che contava di superare i 10milioni di visite l’anno. Stessa sorte è toccata ai musei del Regno Unito, che tra il 2010 e il 2016 hanno fronteggiato un forte calo di visite e di introiti e che ha portato alla chiusura di 94 istituzioni museali in tutta la nazione, in particolare nelle aree più remote. È la stessa Museum Association (MA) ad indicare la contrazione del numero di visitatori nei musei britannici nel biennio 2015-2016 e a stabilire che circa il 46% di questi hanno subito un considerevole calo di visite, ad eccezione della National Gallery e della Tate Modern, che hanno riportato rispettivamente un +6% e un +5%.

Dati, questi, che possono essere influenzati da variabili differenti, prima tra tutte la sempre più crescente allerta-terrorismo che negli ultimi anni ha mandato in crisi l’intero comparto turistico, la crisi economica e la conseguente riduzione della spesa pubblica per le attività culturali, ma anche il ricorso a strategie di promozione e valorizzazione culturale ormai obsolete. Ma se volessimo mettere sul piatto della bilancia tutti questi fattori che peso avrebbe, nel determinare la crisi del comparto, l’allerta terrorismo? E quale, invece, il ricorso a strategie di marketing poco consapevoli?

Buone pratiche italiane

È noto. Lo scopo di un’impresa culturale è mettere in atto strategie diversificate a seconda degli obiettivi relazionati alla situazione o al contesto culturale e l’errore più comune diventa il non considerare le esigenze di un’utenza che richiede un’approccio sia innovativo che quantitativo; infatti, l’esito di un’esperienza culturale è legato soprattutto al grado di soddisfazione del cliente che, quando coinvolto in campagne dal forte impatto digitale ed emotivo, porta ad incrementare anche il numero delle presenze nei centri culturali. Il metodo di fruizione rapido e strettamente connesso alla comunicazione della struttura fa sì che l’esperienza culturale possa essere decisamente più intuitiva.

La campagna lanciata dal MIBACT (Ministero dei beni e delle Attività culturali e del Turismo, n.d.r.) con l’hashtag #creaturefantastiche, per esempio, invita i visitatori a cercare mostri e figure immaginarie nell’arte e a condividerle su Twitter: un’operazione social che ha portato ad una crescita dei contenuti pubblicati online dai visitatori del 45,5%. Interessante è anche la campagna di valorizzazione culturale dei musei italiani, diffusa sempre dal MIBACT, che propone la diffusione di foto di musei e luoghi di cultura attraverso l’utilizzo delle piattaforme social più comuni come Facebook, Twitter e Instagram. Si parte dalla campagna di comunicazione L’arte ti somiglia, promossa nel 2016 in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, in cui si propone un gioco di somiglianze tra opere e volti di persone comuni, in modo che l’utente si riconosca e si senta stimolato a sentirsi parte integrante della proposta culturale; fino ad arrivare ad altre iniziative, come quelle legate alla Giornata Internazionale della Donna, che prevede l’ingresso libero del gentil sesso nei musei italiani. «Anche quanto realizzato in termini di promozione con la Reggia di Caserta mi pare molto significativo, dato che la Campania avrebbe bisogno di crescere e migliorare non solo per quanto riguarda la visibilità di Napoli ma anche delle aree limitrofe», commenta Sergio Cherubini, ordinario di Marketing presso l’Università Tor Vergata, docente di Marketing culturale alla Lumsa di Roma e autore del saggio Marketing culturale. Prodotti servizi eventi.

Promuovere cultura penalizza le famiglie con minor reddito?

Ma il rischio di deformazione è forte e la linea di demarcazione fra marketing culturale e promozione pura di beni e servizi è molto labile. «Se, in linea teorica, il marketing culturale ha come obbiettivo la valorizzazione dei beni culturali, sostanzialmente, invece, il rischio in termini di “mercificazione” della cultura potrebbe sfociare nella mera pubblicità di beni», commenta Guglielmo Forges Davanzati, Professore Associato di Economia politica e dei Sistemi di welfare all’Università del Salento e referente editoriale di “Review of Political Economy” e “Micromega”.  «A conti fatti, quindi, nonostante il marketing culturale sia uno degli strumenti attualmente più utili per gli addetti al settore, presenta sempre dei lati nascosti e difficili da maneggiare». Associare cultura e marketing potrebbe snaturare l’essenza stessa della cultura, rendendone l’accesso paradossalmente più difficile per le famiglie con bassi redditi. Trattandosi di un gioco “a somma zero”, in cui ogni operatore cerca di acquisire quote di mercato sottraendole ai concorrenti, le spese promozionali sono tecnicamente uno spreco sul piano macroeconomico. Attraggono consumatori in un dato luogo, ma li allontanano da altri. L’esito è che ciò che conta non è più la qualità effettiva dell’offerta, ma la qualità percepita, che a sua volta dipende dalle capacità persuasive di chi pubblicizza il prodotto».

Ma il marketing, in certi casi, può essere considerato un punto di forza come nel caso di un dipinto che vale la pena di essere visto al di là del biglietto. Dunque un compromesso fra cultura e marketing è possibile? «Il problema, purtroppo, è che la dimensione culturale è arretrata e spesso si rifiuta di “sporcarsi” le mani con il marketing. Questo, invece, andrebbe percepito come uno strumento utile perché senza sostenibilità economica si diviene socialmente poco utili», prosegue Cherubini. «Da questo punto di vista, la cultura in senso stretto dovrebbe essere supportata da manager e professionisti economici che portino innovazione nel settore. Questa, nella maggior parte dei casi, non è legata tanto al valore del contenuto artistico, quanto a componenti secondarie come il collegamento diretto con le infrastrutture e la sicurezza. Bisogna selezionare gli spunti innovativi più adatti, in modo da rendere più favorevole il posizionamento del comparto culturale, senza snaturarne le componenti divulgative. Il turismo enogastronomico, che oggi va molto di moda, è un esempio lampante, perché ha comportato non solo un arricchimento dell’esperienza turistico-culturale in sé, ma ha determinato anche un nuovo ruolo per il visitatore che diventa il principale promotore di quanto visto. Il digitale, poi, ha comportato una ridefinizione di questo ruolo molto più che nel passato dato che non esiste testimonianza più credibile di quella offerta da “chi ci è stato”. Il web, nell’ambito dei servizi, ha una vasta potenzialità, sia in termini di estensione geografica che di rapidità della trasmissione. Il web-analytic, altro strumento importante, permette d’identificare meglio tutti quegli aspetti che interessano le varie tipologie di persone e di orientarne le scelte».

L’innovazione culturale del “guardarsi intorno”

«La dimensione culturale deve quindi diventare la prima attrazione turistica, configurarsi in entertainment ed esperienza piacevole, che non è data solo dal momento specifico della fruizione ma da tutto ciò che le ruota intorno. «Il rapporto tra dimensione culturale, territorio e suoi rappresentati non può andare a buon fine senza un adeguato co-marketing tra istituzioni e Pubblica Amministrazione. Questa strategia potrebbe essere molto più efficace rispetto a quelle standard e generare quindi un circolo virtuoso. Innovazione, in questo senso, significa quindi guardarsi intorno, seguendo le logiche del matchmarking e far caso anche agli altri settori che hanno ottenuto buoni risultati. Il problema cardine è che il comparto culturale vive in modo autarchico spesso senza rendersi conto che la base del successo sta nella fruibilità», conclude Cherubini.

La situazione italiana è senza dubbio peculiare dato che la stragrande maggioranza delle Istituzioni culturali sono di carattere pubblico. Viste in quest’ottica, risulta fondamentale un loro riadattamento sia al contesto socio-politico che alle esigenze del mercato. Operazione che tuttavia sembra ostica in un mercato come quello italiano, poiché il Belpaese è da sempre troppo ancorato alla tradizione e poco avvezzo ai cambiamenti. È in atto una vera e propria querelle tra fautori e detrattori del bene culturale inteso come merce e attraverso cui è possibile garantire introiti e visibilità alla nazione. Le conseguenze di questo circolo vizioso, oltre ad essere varie e imprevedibili, danneggiano in modo considerevole soprattutto le piccole istituzioni culturali che troppo spesso si ritrovano incastonate tra la scarsità di fondi pubblici loro destinati e gestioni “schizofreniche” di curatori ancorati alla loro antica professionalità che rifiutano quell’innovazione e quell’aggiornamento che potrebbe comportare la messa in discussione di uno status quo.

La cultura aiuta a vivere meglio, non a far crescere fatturati

Ma il marketing culturale può essere davvero lo strumento principe per risollevare le prospettive economiche di un Paese? «Penso che il marketing culturale possa essere fondamentalmente dannoso se lo si guarda in una prospettiva macroeconomica», sottolinea il docente salentino. «È molto rischioso provare ad uscire dalla lunga recessione puntando quasi esclusivamente sulle nostre vocazioni naturali. L’Italia, e ancora più il Mezzogiorno, ha bisogno di investimenti pubblici per far crescere la produttività. Non sono a conoscenza di nessun Paese la cui crescita economica sia stata trainata esclusivamente dalla cultura. L’offerta culturale conta e conta ovviamente la sua qualità. Ma è importante che contribuisca anche al miglioramento della qualità della vita e quindi ai fini dello sviluppo umano. Molto meno, invece, ai fini della crescita economica».

Tutti i “non detti” sulle pecche del turismo italiano

Non è detto, dunque, che il marketing culturale sia sempre e in ogni contesto uno strumento adoperabile. «Nel comparto turistico, scommettere su una crescita trainata da questo settore — come avviene in molte regioni italiane — è a mio avviso estremamente rischioso», conclude Forges Davanzati . «Primo, come ampiamente documentato dai dati, i flussi turistici tendono ad arrestarsi in tempi molto brevi dopo una prima fase di espansione. All’aumentare delle presenze turistiche, però, l’attrattività del territorio tende a deteriorarsi e, con essa, la qualità dell’offerta turistica stessa. In secondo luogo e salvo rare eccezioni, la gestione delle imprese turistiche non risponde a criteri di efficienza e professionalità. Si tratta, molto spesso, di attività imprenditoriali avviate da individui che non hanno competenze adeguate per la loro gestione (si pensi alle competenze linguistiche). Il turismo è tipicamente il settore nel quale è più diffusa l’esistenza di lavoro sommerso e il fenomeno della disoccupazione nascosta, in base al quale i lavoratori formalmente occupati erogano una produttività nulla. Il caso delle imprese familiari è emblematico in questo senso: si assume un familiare perché è tale, indipendentemente dal suo contributo alla produzione e quindi all’effettiva necessità dell’impresa di averlo come dipendente».

 

(Photo credits: unsplash.com/Igor Miske)

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