Vendere: non è il cosa ma è il come e il quando

Quando capita che nelle grandi o piccole città, o anche nei piccoli quartieri di provincia, mi imbatta in un qualche mercato a cielo aperto, resto sempre affascinato dalla varietà dei prodotti, dalle loro sfumature, dai loro colori, dai loro odori e, soprattutto, dalle modalità con cui vengono proposti. Si trova la bancarella disordinata ma con […]

Quando capita che nelle grandi o piccole città, o anche nei piccoli quartieri di provincia, mi imbatta in un qualche mercato a cielo aperto, resto sempre affascinato dalla varietà dei prodotti, dalle loro sfumature, dai loro colori, dai loro odori e, soprattutto, dalle modalità con cui vengono proposti. Si trova la bancarella disordinata ma con frutta e verdura freschissima, quella con la postazione attrezzata di tutto punto ma col mercante scorbutico, la sediolina con la vecchietta che, con le sue mani, sta preparando la pasta fresca, il pescivendolo che con le sue urla cerca di attirare l’attenzione della gente sulla freschezza del pesce appena pescato, e poi c’è sempre il giullare del mercato che da solo rallegra le persone accorse; di solito è lui ad avere il miglior ROI quotidiano.

Attenzione, non stiamo parlando del più alto incasso, ma del maggior profitto. Il giullare di solito investe poco tra tempo e merce da rivendere (che, nella maggior parte dei casi, è anche di poco valore), ma con la sua naturale simpatia, che nei manuali di marketing rientrerebbe nelle tecniche di persuasione, è capace di portare a casa un profitto superiore a quello degli altri mercanti che puntano tutto sul prodotto che offrono.

È che in un mercato nato per accogliere tutti i tipi di venditori e tutti i tipi di pubblico, la maggior parte delle proposte non è studiata su un posizionamento dei prodotti offerti. Questo è un tipo di mercato in cui commercianti e commerciali sono tutt’uno. È un mercato in cui, quasi sempre, non è cosa vendi ma è come lo vendi che fa la differenza. E vince sempre chi sa vendere meglio; a prescindere dal settore in cui rientra il prodotto offerto.

Gli imprenditori italiani del caffè: le ragioni di una debolezza

Se pensiamo, nel dettaglio, al settore del caffè in Italia, agli imprenditori italiani e agli esperti del prodotto, finiremo sicuramente a far parte di tutta quella massa critica popolare che reputa il caffè italiano il migliore del mondo, e che su questa idea stereotipata basa in maniera saccente i discorsi in cui si paragonano le varie tipologie di caffè comunemente servite. Il problema è che questa “massa critica” non tiene conto dei diversi tipi di mercati nel mondo. Come spesso capita, crediamo per pura presa di posizione di essere i primi in un settore, senza fare le opportune verifiche. Se si facesse anche solo riferimento alla classifica dei maggiori Paesi consumatori di caffè nel mondo, ci si renderebbe conto subito che l’Italia non compare neanche nella top ten, dove invece la fanno da padrone i Paesi scandinavi e del centro Europa.

La nostra prosopopea, che comunque dovrebbe sapersi trasformare in leadership, è giustificata in realtà soltanto quando parliamo della produzione e della preparazione del caffè servito attraverso una delle tante tecniche di estrazione: l’espresso.

E allora, così come il presuntuoso mercante scorbutico non sa spiegarsi come sia possibile che un “giullare” di mercato, senza arte né parte, possa guadagnare molto più di lui che offre i migliori prodotti in una delle postazioni più curate del mercato, ecco che, tra qualche anno, anticipate dalle critiche degli ultimi mesi che denotano un velato timore di una nuova concorrenza, l’imprenditore italiano del caffè, il lavoratore del caffè, dal torrefattore al barista, dal grosso manager della grande azienda italiana al proprietario della grande caffetteria della metropoli, non si spiegheranno come sarà stato possibile che il colosso americano, sbarcato in Italia con quel “beverone di acqua sporca che chiama caffè lungo”, possa avergli portato via ingenti quote di mercato o, molto più comunemente, tanti clienti.

La spiegazione è molto semplice e sta nella patetica ignoranza, tutta italiana, che ci porta a pensare che una tecnica di preparazione del caffè diversa da quella per cui ci siamo autoproclamati maestri, in realtà, estragga una bevanda paragonabile ad “acqua sporca”, semplicemente perché questa presenta un prodotto differente da quello che riconosciamo con le nostre abitudini visive e olfattive – e che ovviamente ha un sapore differente dal caffè espresso.

Una domanda, a questo punto, sorge spontanea: non potremmo parlare di “protezionismo” della cultura italiana? Cioè: se abbiamo detto che l’italiano medio tende a riconoscere nell’espresso il solo caffè adatto ai suoi gusti, magari, potremmo non avere timori, in quanto il colosso americano che sta preparando lo sbarco in Italia per fine anno, per invadere con la sua “monnezza” il nostro mercato, sarà respinto negli USA in maniera naturale dalla scarsa domanda che gli italiani rivolgeranno al suo prodotto, e quindi avrà vita breve nel nostro paese.

Questo potremmo pensare se parlassimo di “protezionismo” in senso economico e se, quindi, pur sbagliando, scegliessimo questa strategia economica come iniziativa dedita a preservare il mercato delle nostre aziende e del prodotto Made in Italy. Ma così non è: questo astratto protezionismo, in realtà, è una concretissima ignoranza culturale che, così come ci rende timorosi dell’avvento di un nuovo grande ed affascinante concorrente, ci ha resi troppo prudenti, ai limiti del suicidio economico, non vedendoci, negli anni, capaci di esportare, per primi, in maniera strategicamente conveniente per il nostro paese, la cultura dell’espresso italiano nel mondo.

Perché Starbucks ha già vinto

Oggi, nell’immaginario collettivo mondiale (e sottolineo mondiale, quindi facciamo insieme lo sforzo di uscire dalle nostre quattro mura per qualche minuto), con il termine caffetteria si riconosce il marchio Starbucks, tutto americano, che però, da quanto si è appreso dalle dichiarazioni del suo fondatore Schultz, è nato dall’ispirazione delle torrefazioni e dei caffè italiani. A differenza degli imprenditori italiani Schultz, con Starbucks, ha saputo dare un’identità al suo progetto, alla sua creatura, non solo negli USA ma in tutto il mondo, riuscendo a contare, a oggi, circa ventitremila punti vendita attivi in tutto il mondo. Nel suo progetto di sbarco in Italia, a partire dall’autunno corrente con l’apertura della più grande roastery a cielo aperto a Milano, ha previsto l’avviamento di circa trecento punti vendita in tutta Italia nei prossimi sei anni.

La leadership di Nespresso e l’occasione persa da Lavazza

Un altro esempio di quanto noi italiani riusciamo a essere, nel bene e nel male, più commercianti che commerciali è dato dalle moderne capsule di caffè monoporzione e dal loro posizionamento nel mercato mondiale del settore. Oggi con il termine capsula di caffè, nel mondo, è identificato il brand del colosso svizzero Nespresso con le sue capsule che, in realtà, del caffè espresso hanno soltanto il metodo di estrazione dovuto alle macchine: se solo pensiamo alla quantità di caffè incluso in esse, che è di cinque grammi, notiamo che questa differisce enormemente da quella utile alla preparazione standard dell’espresso italiano, in quanto per questa occorrono otto grammi.

Nespresso, quindi, grazie alle sue enormi potenzialità commerciali, con una sapiente operazione di marketing studiata nei minimi dettagli, è riuscita a essere riconosciuta come leader del mercato delle capsule di caffè espresso, vendendo ai suoi clienti, a un prezzo nettamente superiore a quello della concorrenza, sulla base di 1 kg di prodotto, una quantità di caffè inferiore del 37%. Grazie però al posizionamento di marca che ha scelto, all’attenzione a tutti i servizi rivolti ai clienti, creando il loro club esclusivo in cui potersi riconoscere, questi sono comunque felici e contenti di riconoscersi come consumatori Nespresso, nonostante sappiano che altrove potrebbero trovare prodotti nettamente migliori in termini di rapporto qualità-prezzo.

Questo meritato riconoscimento di Nespresso nell’immaginario comune come leader delle capsule di caffè poteva tranquillamente essere di Lavazza, considerando che l’azienda di Torino, cronologicamente, ha anticipato di un decennio l’introduzione delle capsule nel mercato. Ma la leadership, come detto, non si acquisisce dal cosa e dal quando si propone, ma dal come e dal dove; tant’è che ad ammetterla, quella del colosso svizzero, qualche mese fa, è stata la stessa Lavazza S.P.A., che per non perdere ulteriori quote di mercato, ha deciso di iniziare la produzione e la distribuzione delle “capsule compatibili Nespresso”, alla stregua dei piccoli produttori di caffè che approfittano del mercato aperto dai grandi colossi per cercare di accaparrarsi una piccola fetta del loro mercato. In quest’ottica Lavazza denota una mentalità da commerciante piuttosto che da commerciale, e dichiara al mondo di guardare il colosso dal basso verso l’alto.

Come brand italiano di rilievo da citare in questa analisi, con una visione e una mentalità totalmente differente da Lavazza, in quanto nella propria progettualità aziendale ha portato avanti la creazione di una identità più che la crescita del fatturato a tutti i costi, vi è Illy, che è stata capace, nel suo “piccolo”, rispetto ai colossi, di essere riconosciuta come caffetteria italiana e come prodotto italiano, semplicemente proponendo nel mondo le sue caffetterie con un concept ben definito, puntando sulla sua storia e sulla scelta di servire un’unica miscela di caffè. Illy è anche, probabilmente, l’unico brand italiano riconosciuto nel mondo come “formatore” della cultura del caffè italiano grazie alla sua Università del Caffè.

Insomma il fascino dei mercati va oltre il prodotto; e quando si parla di cultura abbinata a un prodotto e al suo Paese di riferimento vi sarebbero tante analisi da compiere. Analisi in cui, commercianti o commerciali, le aziende italiane potrebbero essere il punto di riferimento semplicemente cambiando visione, puntando sulla cultura del prodotto e non sulla produzione e la vendita fine a se stessa.

Non è il cosa, ma è il come e il quando.

 

Photo by Jakub Kapusnak on Unsplash.com

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