Collezione di annunci: è il lavoro, bellezza

Il dibattito è aperto: il Jobs Act sta sostenendo il mercato del lavoro? Il governo, pro domo sua, ha salutato la riforma come l’intervento più importante del 2015, facendo collezione di annunci trionfalistici. Illustri commentatori, per contro, rispondono che poco o nulla è cambiato, facendo notare che il recupero dell’occupazione è da attribuire più alla […]

Il dibattito è aperto: il Jobs Act sta sostenendo il mercato del lavoro?
Il governo, pro domo sua, ha salutato la riforma come l’intervento più importante del 2015, facendo collezione di annunci trionfalistici. Illustri commentatori, per contro, rispondono che poco o nulla è cambiato, facendo notare che il recupero dell’occupazione è da attribuire più alla ripresa dell’economia che al reale contributo offerto dalle nuove misure. La verità, come al solito, sta nel mezzo.

Parola ai numeri

Mi accorgo in queste occasioni della fortuna di cui gode un economista indipendente: poter affidare ai dati ogni tipo di valutazione, al riparo da letture benevole o strumentalizzazioni di sorta. I numeri però da soli non dicono tutto: occorre analizzarli e “spremerli”, individuare i collegamenti e darne una interpretazione originale.

Le fonti disponibili (Istat, Ministero del Lavoro e Inps) convergono nel descrivere un mercato del lavoro in miglioramento, anche superiore nelle dimensioni alla ripresa del Pil e della produzione.
Da qualsiasi parte lo si guardi, infatti, tutti gli indicatori assumono intonazione incoraggiante: crescono gli occupati (si stima circa 200 mila in più rispetto al 2014), rientra il tasso di disoccupazione (siamo poco sopra l’11%, dal 13% registrato nella fase più acuta della recessione), si fa meno frequente il ricorso alla cassa integrazione, segno che il grande malato, l’impresa italiana, ha timidamente imboccato la via della guarigione.

Un bravo economista, a questo punto, deve contestualizzare i fenomeni per non lasciarsi andare a facili entusiasmi: ecco che allora la crescita degli ultimi mesi va relativizzata rispetto a tutto il terreno perso dal 2008 in avanti. Si scopre così che, rispetto al periodo pre fallimento Lehman Brothers, il saldo è ancora pesantemente negativo: meno 700 mila occupati. E meno lavoro vuol dire meno reddito, meno ricchezza, meno investimenti, meno consumi per il Paese.
La prima conclusione è quindi questa: bene il 2015 ma la strada è ancora lunga, lunghissima.

Alzi la mano chi ha dimenticato gli sgravi fiscali

Ma se la prima conclusione è vera, su altre basi alcuni arrivanoa mettere in discussione l’efficacia del Jobs Act. Un’altra qualità del bravo economista, infatti, è quella di non avere memoria corta.
La realtà è che i più non considerano che gli effetti, positivi o meno, della riforma si manifesteranno solo nel medio periodo e dimenticano che il 2015 ha beneficiato dell’esercizio della leva fiscale sul lavoro dipendente.

La Legge di Stabilità 2014 (attenzione, non il Jobs Act) ha introdotto una decontribuzione sui contratti sottoscritti nel corso del 2015 che per il datore di lavoro può arrivare a valere sino ad 8 mila euro in meno all’anno (e per tre anni, dal 2015 al 2017).
Nella stessa direzione ha operato anche la liberalizzazione del contratto a termine: la riforma Poletti del 2014 (attenzione, ancora una volta non il Jobs Act) ne ha facilitato l’impiego, rimuovendo l‘obbligo di causa scritta ed introducendo la facoltà di rinnovare il contratto fino ad un massimo di cinque volte consecutive nell’arco di tre anni.

Sgravi fiscali e flessibilità: sono questi i veri “motori” del mercato del lavoro 2015. Tra le due sembrerebbe la seconda la misura più efficace: dei 200 mila occupati in più contabilizzati dalla statistica, i due terzi (+5% rispetto al 2014) sono nuovi contratti temporanei e solo un terzo (appena +0,5%) rapporti di lavoro a tempo indeterminato e a tutele crescenti.

Un dubbio sorge dunque spontaneo: ma se il consolidamento dell’economia non è tale da giustificare un recupero robusto dell’occupazione che fine hanno fatto i nuovi occupati? Sorpresa: sono andati a sostituire lo straordinario, come conferma la riduzione delle ore lavorate per occupato.
Tradotto nella testa di un datore di lavoro: meglio assumere un nuovo dipendente a costi ridotti anziché ricorrere allo straordinario dei lavoratori già in organico. Un ragionamento che dal punto di vista della mera convenienza economica non fa obiettivamente una piega.

Le novità: guidano il Sud e l’agricoltura

Terza ed ultima chiave di lettura, l’approdo di ogni analisi economica: dal macro al micro, dal fenomeno nel suo complesso al dettaglio. Uno dei tratti salienti della recente recessione economica è stato quello di aver contribuito ad ampliare i divari nel Paese lungo le diversi direttrici, dall’età al genere, dalla localizzazione geografica al settore di attività economica.

Alla fine del 2015, però, permangono le fratture generazionali e di genere: non stupisce che il recupero dell’ultimo anno abbia interessato unicamente gli over 50 (+4,5% di media nel 2015, per effetto delle nuove norme previdenziali che tendono a posticipare l’uscita dal mercato del lavoro, in compenso l’Italia è maglia nera in Europa per la disoccupazione giovanile) ed i lavoratori di sesso maschile (+1,1%, segno che le misure a favore della genitorialità vanno rafforzate ulteriormente nella conciliazione lavoro-vita privata).

Le novità, del tutto inattese, arrivano dai divari territoriali (nonostante quasi 10 punti di differenza nei tassi di disoccupazione, nel Mezzogiorno la crescita dell’occupazione è stata di 4 volte superiore rispetto a quella del Nord) e da quelli settoriali, dove il recupero è partito solo dall’agricoltura (+4,1%) e dai servizi (+1,1%).
Un quadro articolato ed una amara considerazione: ancora tante, troppe Italie in questo Paese che non viaggia mai alla stessa velocità.

 

[Credits immagine: ilas.com]

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