Con l’llva di Taranto, il sottosviluppo è una promessa

Sud e rinnovabili. Un rapporto difficile, in alcuni casi impossibile anche e comunque quando c’è di mezzo uno dei problemi più grandi per il Meridione: il lavoro. E il caso Taranto, con l’Ilva e con gli annessi della Regione Puglia e Basilicata, è emblematico. C’è voluto il Consiglio di Stato, infatti, per sbloccare nel giugno […]

Sud e rinnovabili. Un rapporto difficile, in alcuni casi impossibile anche e comunque quando c’è di mezzo uno dei problemi più grandi per il Meridione: il lavoro. E il caso Taranto, con l’Ilva e con gli annessi della Regione Puglia e Basilicata, è emblematico. C’è voluto il Consiglio di Stato, infatti, per sbloccare nel giugno scorso, dopo due anni d’attesa – con tempi che dal punto di vista industriale sono oggi insopportabili – il parco eolico in mare da 30 MWe, ossia dieci pale off shore alle quali si opponeva il Comune di Taranto. Pale che oltretutto sorgeranno davanti al terminal container del porto e all’Ilva. E il caso di Taranto, proprio per la presenza dell’Ilva, è emblematico per il ruolo che possiede la politica quando si tratta di gestire nei fatti il cambiamento.

Taranto, infatti, per l’eolico non è una città qualsiasi. Oltre all’Ilva, nella città pugliese dei due mari c’è anche la Vestas, la prima azienda al mondo del settore eolico che tra alterne vicissitudini da anni produce pale eoliche in Italia. Si tratta di un’azienda che, oltre a dover disporre di una logistica adeguata (le singole pale dei rotori misurano anche 40 metri), necessita anche di un luogo fisico dove sperimentare prodotti specifici che sono diversi da quelli del Mare del Nord, specialmente nel campo dell’eolico off shore. Lo sfruttamento dell’energia del vento al largo delle coste, infatti, è una tecnologia abbastanza matura ma che necessita di ricerca e sviluppo per abbassarne i costi e un’area come quella di Taranto sarebbe l’ideale, anche perché l’eolico rispetto all’attività portuale e a quella militare, per non parlare dell’Ilva, rappresenta di sicuro un salto di qualità rispetto all’ambiente e non pone pesanti ipoteche verso il futuro, visto che una volta dismesso non lascia zone contaminate.

E invece il Comune di Taranto ha portato fino all’ultimo grado di giudizio il campo eolico della Beolico, questo il nome dell’azienda. Lo ha fatto con una tenacia sconcertante, contestando sia l’impatto ambientale – e ci sarebbe da chiedersi chi decide le priorità sull’ambiente a Taranto, vista la presenza dell’Ilva – sia le procedure amministrative. Sulla prima questione è evidente che il problema era prettamente politico, visto che il campo eolico non sorgerà in Sic (Sito d’interesse comunitario), Zps (Zone a protezione speciale) o su altri territori tutelati, mentre l’aspetto amministrativo è stato smontato dal Consiglio di Stato stesso. Ma vale la pena leggere le motivazioni con le quali la Soprintendenza bocciò il campo eolico nonostante sia davanti all’Ilva e risulti invisibile dal centro storico. Le pale eoliche, recita il dispositivo della Soprintendenza, compiono «una significativa alterazione del paesaggio, mortificando la visione del mare e dell’orizzonte marino dai complessi monumentali presenti nell’area industriale e dall’insediamento residenziale di Lido Azzurro».

Questo è un pezzo del contesto che riguarda le aziende delle rinnovabili, ma che è ben diverso all’estero. Girando per i capannoni di All Energy 2014 – una manifestazione sul mondo dell’energia che si è tenuta lo scorso anno ad Aberdeen in Scozia – era evidente come tutto il tessuto imprenditoriale, manifattura, finanza e servizi, fosse estremamente motivato a promuovere un settore ancora ai nastri di partenza come l’eolico off shore. Negli stand di porti e cantieri si leggevano a caratteri cubitali cose del tipo «Dopo 40 anni d’attività con le piattaforme petrolifere siamo pronti per l’eolico», oppure nel caso di compagnie navali «Una piattaforma petrolifera pesa quanto 100 pale eoliche. Per cui nessun problema». Per non parlare dello stand ufficiale del Governo Scozzese sotto al quale trovavano posto i box delle banche, dove funzionari governativi lavoravano gomito a gomito con gli analisti finanziari, per adattare caso per caso i flussi economici degli incentivi governativi con quelli della produzione energetica, comparandoli sia con i costi amministrativi, sia con quelli tecnici. Il confronto con i nostri enti locali era (ed è) impietoso, specialmente se si pensa che oltre al campo eolico di Taranto, l’unico sbloccato, in Italia sono addirittura 15 i progetti d’eolico off shore ancora fermi: alcuni addorittura dal 2006, 14 dei quali localizati nel Meridione, come ha rilevato Legambiente in un suo recente rapporto.

Questa ganascia all’eolico, e alle rinnovabili più in generale, si traduce in vero e proprio fattore di sottosviluppo. Prendiamo il caso di Vestas. L’impresa danese si è insediata a Taranto non per caso. La presenza di infrastrutture logistiche adeguate (strade e porto) e la posizione hanno giocato un ruolo fondamentale in quella loro scelta che è stata giudicata ideale per un azienda del nord Europa proiettata verso i mercati del sud Europa e, più recentemente, di quelli nel Mediterraneo del Sud. Ma non si è trattato solo di logistica. Taranto è in Italia e il nostro paese fornisce a Vestas quasi l’80% della componentistica delle pale eoliche in sub fornitura – e qui ci sarebbe da chiedersi come mai non abbiamo un’industria nazionale dell’eolico, ma questa è un’altra storia – per cui la prossimità ai fornitori della componentistica, assieme a quella ai mercati, è essenziale. Se a ciò aggiungiamo il fatto che quasi il 40% delle pale eoliche italiane, pari a 3 GWe di potenza, siano realizzate da Vestas, ci si rende conto quanto le condizioni di contesto contino per avere nel Meridione uno stabilimento con 700 addetti, numero che non si trova frequentemente in queste zone. E i nostri 8.000 chilometri di coste sarebbero il laboratorio perfetto per lo sviluppo del nuovo eolico off shore. La costa adriatica, infatti, è caratterizzata da bassi fondali, come il Mar Baltico, ma con venti deboli: necessita quindi di macchine efficienti che lavorino con poco vento e che sono ancora tutte da sviluppare, mentre il Mar Tirreno offre venti più forti ma fondali profondi, ragione per la quale servono macchine galleggianti sulle quali è necessaria molta ottimizzazione di prodotto.

Insomma, potremmo avere lavoro per i prossimi decenni con il vento, visto che al 2030 si prevede una potenza eolica installata a livello mondiale di 1.107 GWe – erano 320 GWe a fine 2013. E per dare un’idea delle misure, bisogna considerare che per installare 1 GWe servono 333 pale eoliche da 3 MWe e quindi al 2030 sarà necessario avere 263 mila nuovi aerogeneratori. Che dire? Un mercato di dimensioni ragguardevoli che avendo in casa il più grande produttore di pale eoliche al mondo, ossia Vestas con una quota di mercato globale del 11,6% nel 2014, forse sarebbe meglio curare un poco meglio. E non è tutta colpa della politica locale, visto che per il campo eolico off shore al largo del Molise, presentato nel lontano 2006 – quello bocciato anche da Antonio Di Pietro nonostante sui manifesti elettorali dell’Italia dei Valori capeggiassero diverse pale eoliche – la bocciatura è arrivata direttamente pochi mesi fa dal Consiglio dei Ministri, presieduto da Matteo Renzi che evidentemente al vento preferisce le trivelle.
«È il momento che il Governo, senza ipocrisie, dica agli imprenditori se ha senso continuare a investire nell’eolico off shore oppure se le porte continueranno a essere sbarrate, se condivide i veti posti dal Ministero dei Beni Culturali contro questi impianti e infine se ha intenzione di continuare in una politica di scelte forti che vale solo per le fonti fossili e le autostrade, come fatto con lo Sblocca Italia», dice il vicepresidente di Legambiente Edoardo Zanchini.

E che dire, per tornare agli Enti locali, della moratoria dell’eolico da parte della Basilicata che nel frattempo distribuisce alla popolazione buoni benzina derivati dalle royalties dell’estrazione petrolifera? O del blocco delle rinnovabili in Sicilia, opera in primis dell’ex governatore regionale ora detenuto, Salvatore Cuffaro, che ha fatto ridurre e spostare all’estero le attività della Moncada Energy la quale aveva l’unico stabilimento di pannelli fotovoltaici a film sottile in Italia e un impianto ibrido, fotovoltaico più eolico, innovativo e in grado di fornire elettricità giorno e notte, riducendo gli addetti da 260 a 70 in tre anni? E, ancora, cosa pensare della Sardegna che blocca qualsiasi rinnovabile, dalla pala mini eolica da 60 kWe di un agricoltore fino agli innovativi sistemi solari a concentrazione da realizzare in quel deserto industriale che è il Sulcis, passando per le serre fotovoltaiche che sono state poste sotto sequestro per la “scarsa produzione agricola” sottostante? Tornando all’Ilva di Taranto, forse la politica dovrebbe guardare al di là dei confini regionali e nazionali pensando a come attrarre investimenti puliti, e non attirando le attività inquinanti come in passato.

Investimenti che possano compensare il declino inevitabile dell’acciaieria, magari proprio con le rinnovabili che oltre ad aiutare l’occupazione potrebbero in prospettiva mitigare l’effetto dei cambiamenti climatici sul Meridione visto che, secondo i dati Ispra, il 41% del territorio del Sud è a rischio desertificazione. Con buona pace di chi afferma che pale e pannelli “attentano” al turismo e all’agricoltura di qualità: due attività che sarà difficile proseguire nel deserto.

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