Contratto a tutele crescenti: panacea di tutti i mali o goccia nell’oceano?

Delle tante disposizioni legate all’ormai celebre Jobs Act è una delle più attese e probabilmente quella che per prima diventerà «realtà». Stiamo parlando del decreto legislativo sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in via di approvazione definitiva da parte del Governo in questi giorni. Andando oltre la parolina magica oggetto del decreto, che […]

Delle tante disposizioni legate all’ormai celebre Jobs Act è una delle più attese e probabilmente quella che per prima diventerà «realtà». Stiamo parlando del decreto legislativo sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in via di approvazione definitiva da parte del Governo in questi giorni.
Andando oltre la parolina magica oggetto del decreto, che di questi tempi fa più che mai gola a tanti precari, quali sono le novità?
Destinatari del nuovo contratto sono «operai, impiegati e quadri» del settore privato, che saranno assunti a partire dall’entrata in vigore del decreto. Per chi è già assunto prima di quella data restano valide le disposizioni relative al contratto a tempo indeterminato «standard».

Partiamo dai vantaggi: un neoassunto con contratto a tutele crescenti può beneficiare di ferie e periodi di malattia pagati e maternità secondo le modalità già esistenti per i contratti a tempo indeterminato. Si tratta di novità non di poco conto per chi è abituato ai cosiddetti contratti «flessibili» (co.co.co. e co.co.pro. su tutti), che non prevedono ad esempio né ferie né giorni di malattia retribuiti, mentre è oggi già presente un’indennità di maternità per le lavoratrici a progetto. Buone nuove anche dal fronte ammortizzatori sociali: nella prossima primavera dovrebbe entrare in vigore la cosiddetta NaspI, indennità di disoccupazione per i lavoratori a tempo indeterminato che sostituisce le esistenti e ha come beneficiario chi soddisfa una serie di requisiti, tra cui 13 settimane di contributi versati nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione e almeno 18 giorni di lavoro nell’anno precedente l’inizio della disoccupazione. Finora un lavoratore con contratto flessibile aveva diritto sono ad un’una tantum in presenza di una serie di condizioni.

Ma perché un’azienda dovrebbe privilegiare l’assunzione con contratto a tutele crescenti? Indubbiamente perché ne trae dei vantaggi, in primis l’assenza di sgravi fiscali per i tre anni successivi.
Se per le imprese dovrebbe essere più facile assumere, allo stesso tempo pare sia più semplice anche licenziare con regole più chiare e costi ridotti, come spiega Michele Tiraboschi, giuslavorista e docente all’università di Modena: «il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti permette essenzialmente alle imprese di licenziare più facilmente e al lavoratore di ricevere indennizzi che crescono con l’avanzare della carriera. Chi assume un nuovo dipendente a tempo indeterminato è infatti soggetto a una disciplina differente da quella prevista in passato. Il cambiamento riguarda chi viene assunto e licenziato ingiustamente, che non avrà più diritto ad essere reintegrato al proprio posto di lavoro, come previsto prima dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. In questo caso l’azienda è obbligata solo a riconoscere un risarcimento in denaro pari a due mesi di stipendio, per ogni anno di servizio alle spalle, con un minimo di quattro e un massimo di 24 mensilità. Queste regole però valgono solo nelle aziende con più di 15 dipendenti: in quelle con un organico inferiore l’indennizzo varia tra 2,5 e 6 mensilità. La possibilità di essere reintegrati resta dunque solo per i licenziamenti discriminatori (dovuti ad esempio a pregiudizi sessuali, politici o razziali) o per quelli disciplinari legati a fatti in realtà inesistenti».

Il rischio che si creino differenze tra i lavoratori assunti dopo il Jobs Act e quelli assunti in precedenza non è proprio remoto. È dello stesso avviso anche Giampiero Falasca, avvocato esperto di diritto del lavoro e partner dello studio legale DLA Piper: «il licenziamento diventa meno incerto: le regole sono più chiare e i costi connessi sono più prevedibili. Ci sarà una disparità di trattamento tra i lavoratori assunti prima del Jobs Act, che saranno soggetti alle vecchie regole, e i nuovi assunti. Non condivido questa scelta, scarica sui più giovani il costo delle riforme, ma capisco che si è preferito agire con gradualità. Spero che in pochi anni si completi l’opera, allargando le nuove regole a tutti».

Altra questione non di poco conto è capire quanto l’introduzione del nuovo contratto permetterà di arginare le restanti tipologie esistenti, favorendo ulteriori assunzioni e assorbendo buona parte di chi oggi lavora con contratti flessibili: «il problema principale è capire, e non sarà semplice, se questi incentivi verranno utilizzati per assumere nuovo organico o per assumere personale già previsto, riducendone semplicemente i costi. Possibile, e se ne parla in questi giorni, è il caso di contratti in scadenza di lavoratori che vengono riassunti con il contratto a tutele crescenti, con un forte risparmio per le imprese ma senza un effettivo aumento del tasso di occupazione nazionale. L’intenzione del governo è quello di combattere la precarietà eliminando i vari contratti flessibili. Questa soluzione non risponde alle esigenze di un mercato del lavoro moderno, che necessita di strumenti contrattuali elastici che rispondano a un sistema di produzione meno statico e prevedibile di quello del secolo scorso. Per questo il rischio è che il contratto a tutele crescenti, lungi dall’assorbire queste altre tipologie contrattuali, spinga questi lavori nel grande buco del lavoro nero», chiarisce Tiraboschi.

L’impressione al momento è che il contratto a tutele crescenti da solo non basti a risolvere i problemi dell’occupazione in generale e soprattutto di quella giovanile: «sappiamo infatti che una buona legge non crea automaticamente occupazione aggiuntiva. Sicuramente possiamo dire che il nuovo contratto a tutele crescenti non è certo pensato per i giovani, infatti essendo rivolto all’intera forza lavoro italiana è probabile che le imprese lo utilizzino per assumere lavoratori con esperienze pregresse. Centrale per l’occupazione giovanile è implementare un sistema di incontro tra domande e offerta di lavoro che oggi manca, per cui abbiamo giovani competenti che non riescono ad incontrare la domande delle imprese. Questo può avvenire sia attraverso una implementazione delle politiche attive del lavoro che attraverso una maggiore attenzione al mondo del lavoro all’interno dei percorsi educativi. I dati mostrano come nei paesi in cui l’alternanza scuola-lavoro e le politiche attive sono sviluppate il tasso di disoccupazione giovanile è molto più basso», conclude il giuslavorista.

Secondo Falasca invece il vero problema è l’eccesso di regole e burocrazia presente nel nostro Paese, che a suo avviso ostacola gli investimenti e impedisce di fatto al mercato del lavoro di rimettersi in moto: «Non sono ottimista per il fatto che il nostro Paese non attira investimenti a sufficienza, a causa di regole e burocrazie eccessive. Dobbiamo invertire la rotta, tornando ad essere quello che eravamo negli anni ‘60, cioè un paese che era ferocemente orientato allo sviluppo economico. Oggi l’Italia sembra avere come unico obiettivo la creazione di procedure regole e burocrazia».

Il fatto che i tanto auspicati cambiamenti arrivino proprio da un nuovo pacchetto normativo è in quest’ottica emblematico. Fatto sta che solo nel medio-lungo periodo si potrà iniziare a capire se i dati sull’occupazione daranno ragione a Renzi o se per dare una vera scossa all’occupazione serve anche qualcos’altro.

[Credits immagine: laretedellaconoscenza.it]

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