Cosa non farebbe l’ego per un’ora di celebrità

Andy Wharol parla per la prima volta di “15 minuti di celebrità”, profetizzando solo in parte quello che sarebbe accaduto nei nostri giorni. Mentre la sua frase viene incisa all’interno del New York Museum of Modern Art nel 1970, la società subisce enormi cambiamenti e, nel giro di meno di 50 anni, il quarto d’ora […]

Andy Wharol parla per la prima volta di “15 minuti di celebrità”, profetizzando solo in parte quello che sarebbe accaduto nei nostri giorni. Mentre la sua frase viene incisa all’interno del New York Museum of Modern Art nel 1970, la società subisce enormi cambiamenti e, nel giro di meno di 50 anni, il quarto d’ora diventa un’unità di misura troppo piccola. Arrivano Internet e i social network e stravolgono le regole del gioco. Riducono i tempi delle persone nel reperire le informazioni, i tempi della comunicazione, le distanze. Cambia anche l’esposizione a tutto ciò che ci circonda e l’individuo si ritrova in una vetrina nella quale decide come mostrarsi e cosa mostrare. Direi, in modo più provocatorio, cosa mettere in vendita.

Più di dieci anni fa nasce Second Life, quel gioco gratuito che bastava scaricare sul proprio pc o Mac in cui ogni individuo interpretava la vita virtuale di un suo alter ego, un avatar. È probabilmente il primo preoccupante esperimento sul web di “faccio finta di essere X anziché Y”, un mondo virtuale a metà tra gaming e tentativo di migliorare la propria “First Life”.

Poi arrivano i Blog, i social network, quelli come Facebook. E dopo gli influencer. L’ingresso di nuovi media, come accaduto in passato, genera nuove regole e nuove modalità di fruizione. E, se prima ci informavamo solo sui giornali o con i tg, adesso leggiamo i blog. Oggi ci fidiamo non solo (o non più) di vip e del testimonial del piccolo e grande schermo, ma anche delle star di Instagram, del rapper diventato famoso su Snapchat o dello youtuber appena diciottenne che sa tutto di videogame. Nel momento in cui “chi non è, vuole apparire a tutti i costi quello che non è” si crea un corto circuito. Aspiranti Fedez e Ferragni ovunque.

Sono in pochi a conoscere Dj Khaled in Italia (ancora per poco). Un modesto dj radiofonico che oggi è diventato uno dei producer musicali più influenti del pianeta. La sua fonte di successo? Snapchat, la piazza in cui ci si è metaforicamente tuffato, portando avanti uno storytelling  fatto di scene quotidiane, messaggi motivazionali, party esagerati con star, musica e backstage del suo mondo professionale. Lui è solo uno dei numerosi esempi di personaggi che sono riusciti a trovare la giusta ricetta che li ha tramutati in celebrità.

Dicevamo inizialmente che 15 minuti non bastano perché i tempi di esposizione ora sono decisamente infiniti. E Second Life è lontano anni luce. In quel mondo ci si nascondeva da quello reale per trovarne uno migliore (questo vale per quelli che non erano lì per giocare). Quanto tempo al giorno passiamo su Facebook per pubblicare foto, video e opinioni, o per sbirciare quelle degli altri. Suona la sveglia, pubblichiamo la foto della nostra perfetta colazione, il nostro perfetto viaggio, le nostre perfette amicizie, la splendida cena la festa da vip. Facebook, Instagram, Snapchat. Una rincorsa continua a cambiare o a tenere a bada la percezione del nostro io, all’esterno, utilizzando quelle che oggi sono i migliori store online in circolazione: i social network.

Farsi percepire è un lavoro

Qui si lavora (è un lavoro a tutti gli effetti) per apparire ed essere percepiti migliori, impeccabili, belli, cool. Per un like in più. “Il tuo brand è ciò che le persone dicono di te quando non sei nella loro stessa stanza”, con questa frase di Jeff Bezos fondatore di Amazon, chiarisce ogni dubbio su cosa sia il personal branding, qualcosa che diventa fondamentale nella nostra strategia di marketing di noi stessi. Chiariamo subito un passaggio importante. Qui non si critica il fare di se stessi un brand con le nuove modalità introdotte dai social. Ma il farlo in maniera sbagliata e l’assenza di consapevolezza di come siamo gettati in una piazza virtuale in cui chiunque può vedere chi sei e cosa stai facendo.

Gli influencer sono anche dei modelli di riferimento per chi cerca di vendersi nel migliore dei modi. Sono sempre stato convinto che tutti quelli che vengono definiti tali e creano contenuti originali, di valore, sono in grado di generarne altri e di modificare i comportamenti e le scelte delle persone. Questo giustifica la loro etichetta di “influenti”. A questi si contrappone una schiera di utenti che invece si esibisce e si mette in “vendita”. Nessun valore, niente di niente, mostra quello che ha, quello che vorrebbe essere. O quello che non ha, il più delle volte, per ottenere un consenso positivo da parte degli altri. Molte volte ci dimentichiamo che siamo costantemente protagonisti di un Truman Show. E in questo spettacolo senza sosta il problema non è l’esibizionismo, ma la modalità di utilizzo dei social, contenitori, o meglio vetrine, in cui inseriamo noi stessi come portatori di valori e significati. Proprio come i brand, che alle spalle hanno un’idea, una serie di valori e filosofia, un modo di essere. In assenza di tutto questo, non stiamo vendendo un buon prodotto.

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