Reportage sulla Milano industriale. Dalle fabbriche di produzione alle fabbriche di cultura

Moda, design, finanza, servizi, cultura, turismo. Oggi Milano è una città dedita ai servizi avanzati e devota all’integrazione di molteplici culture. Ma basta aguzzare lo sguardo per accorgersi che Milano ha anche un altro volto, quello industriale; il testimone di una stagione ormai passata ma di cui restano tracce indelebili. La sua antica vocazione legata […]

Moda, design, finanza, servizi, cultura, turismo. Oggi Milano è una città dedita ai servizi avanzati e devota all’integrazione di molteplici culture. Ma basta aguzzare lo sguardo per accorgersi che Milano ha anche un altro volto, quello industriale; il testimone di una stagione ormai passata ma di cui restano tracce indelebili. La sua antica vocazione legata all’industria è ancora oggi ben visibile. Alcune aziende restano purtroppo dismesse, ferite aperte di un passato che non c’è più. È il caso, per esempio, della ex Borletti, l’imponente edificio che si trova tra la via Costanza, via Romolo Gessi e via Antonio Cecchi.

Ex-Borletti

Un immenso palazzo in stile liberty, con finestroni spesso ad arco, ora fantasma di un’epoca di gloria. La Borletti è nota alla maggioranza delle persone; anche i più giovani ne conoscono la fama. Oltre il primo dopoguerra la produzione raggiunse i 5.000 pezzi, tra sveglie e orologi, e dagli anni Cinquanta iniziò anche la produzione di macchine per cucire. Dopo gli anni Settanta ebbe inizio il progressivo abbandono; oggi è una struttura in degrado, tra finestre rotte e muri scrostati. L’attuale proprietà avrebbe in programma di trasformarla in un residence, ma al momento l’aria che si respira è ancora quella di un’industria spezzata dal tempo.

Ci sono però tante industrie dell’epoca che oggi sono rinate, trasformate alcune in complessi residenziali e molte altre in sedi di musei, centri sperimentali, archivi storici. Luoghi in cui il passato industriale ha sposato un presente di arte e cultura, in cui si continua a respirare l’antica vocazione industriale milanese, rinfrescata da un’aria nuova. Ecco allora il cambiamento, il passaggio da fabbriche di produzione a fabbriche della cultura e di innovazione.

La Milano industriale

Grandi impianti industriali scandiscono per lungo tempo la vita della città di Milano e delle città che le ruotano attorno, prima di questa grande metamorfosi sociale ed economica.

Milano città di industrie, di produzione, di lotte operaie. Sorretta dallo spirito imprenditoriale, si impone nel tempo come centro d’attrazione sia per i contadini delle zone limitrofe, sia per le persone del Sud che cercano nella città un’occupazione. Già agli inizi del Novecento i contadini iniziano pian piano ad abbandonare l’attività agricola delle zone circostanti per iniziare a lavorare nelle grandi fabbriche, permettendo così alle industrie di avere a disposizione una moltitudine di lavoratori manuali che alimentano la crescita industriale: una crescita economica parallela a una forte crescita demografica urbana.

Molti i nomi noti in vari settori, dal tessile alla chimica alla meccanica: De Angeli Frua, per esempio, la celebre industria di tessuti stampati; la già menzionata Borletti, la Pirelli, la Breda, lo stabilimento Wander Ovomaltina, le cartiere Ambrogio Binda (oggi sede di un complesso residenziale che in parte ha recuperato l’antica cartiera), il Lagomarsino (una fra le aziende più prestigiose nella produzione di macchine meccaniche da calcolo, oggi sede di molteplici attività produttive e commerciali), la Riva Calzoni, l’Ansaldo. Grandi e piccole industrie che diventano punti di riferimento nell’economia italiana e nella società.

Secondo i dati riportati dall’Enciclopedia Treccani, agli inizi del Novecento, Milano contava già 50.000 occupati nel settore manifatturiero; nel 1927 erano saliti a ben 230.000. Milano è fra i più fertili cantieri industriali. “Milano è una città industriale – spiega Antonio Calabrò, giornalista, scrittore e direttore della Fondazione Pirelli – segnata da molte imprese che convergono e che guardano all’espansione dei prodotti sui mercati internazionali”.

Nel cuore della pianura padana, per sua natura la città ha una vocazione all’apertura, confermata anche dalla sua stressa struttura. Come racconta Calabrò, “le porte di Milano non sono mai state porte di difesa. Milano è una città indifendibile dal punto di vista militare. Le porte di Milano erano caselli del dazio, con una funzione economica. Già nella sua struttura urbanistica c’è la forma di Milano, così come c’è un pezzo dell’identità che poi si vedrà nello sviluppo dell’industria. Questo segna lo sviluppo di Milano in modo diverso dalle altre grandi città industriali, dai grandi agglomerati di Genova e dalla dimensione autocentrica di Torino. Milano è strutturalmente accogliente”.

Gli anni Settanta

Fino a oltre la metà del Novecento, furono anni fiorenti per tutta l’industria milanese: dal periodo di conversione bellica delle industrie, durante i conflitti mondiali, al boom degli anni Sessanta, considerato il miracolo economico del dopoguerra.

Dagli anni Settanta in poi però le cose cambiarono: l’economia iniziò a subire un rallentamento, gli stabilimenti industriali vennero decentrati e dismessi. Racconta Calabrò: “Negli anni Settanta c’è una doppia crisi: la crisi petrolifera del 1973 (la scelta di alzare i prezzi dell’oro nero da parte dei paesi produttori investì tutto l’occidente, N.d.R.) e, per quanto riguarda l’Italia, la crisi dei conflitti sindacali e la recessione economica. Comincia dalla prima metà degli anni Settanta in poi il processo di espulsione dall’industria di manovalanza e competenze, il ridimensionamento dei grandi impianti, l’articolazione della struttura produttiva sul territorio e per piccole unità”.

Il meccanismo è semplice: i lavoratori che uscivano dalle fabbriche erano persone capaci che spesso aprirono piccole aziende tutte loro in zone più decentrate. Una transizione ben schematizzata da Calabrò: “Creazione di manodopera, creazione di competenze, creazione di nuove imprese, decentramento di attività produttive e passaggio dalla fase industriale della grande impresa alla fase dell’impresa piccola, o correlata in distretti, o autonoma”.

Gli anni Ottanta e Novanta

Dagli anni Settanta iniziò quindi un nuovo processo di trasformazione verso il settore terziario e finanziario, che raggiunse il suo apice tra gli anni Ottanta e Novanta; un processo facilitato dalla stessa apertura milanese.

La dismissione degli impianti ebbe conseguenze molto forti sulla comunità: le industrie ne facevano parte, il legame con gli operai era fortissimo, e di conseguenza la dismissione dei fabbricati, lasciati per anni in abbandono, provocò un senso di vuoto sia negli operai, sia nelle persone fuori dalle aziende. Dagli anni Novanta ha avuto inizio un altro percorso di trasformazione: Milano è divenuta il centro della finanza, della moda, della cultura e dell’innovazione.

Ma il volto della Milano industriale non è cancellato. Le sue tracce si ritrovano nelle fabbriche restituite ad altre funzioni, ma che conservano in tutto o in parte gli elementi che richiamano la loro storia, reiventando il presente sulla base del passato. In questo contesto le aziende, divenute fabbriche di cultura, chiudono il cerchio, poiché si reintegrano nella loro Milano riempiendosi di nuova vita, ma conservando frammenti di una storia che non può e non deve essere cancellata dalla memoria.

Fabbriche di oggetti, fabbriche di idee

Ecco allora che non si può evitare di citare la Fabbrica del Vapore, sorta dalle ceneri della Carminati Toselli tra le vie Messina, Procaccini, Nono e Piazza Coriolano. La fabbrica si occupa della costruzione di materiale da trasporto. Alla fine del 1919 la Società Italiana Carminati Toselli aveva al suo interno circa 1.350 operai. La crescita della domanda di vetture tranviarie segnò l’aumento di produzione della ditta, ma a metà degli anni Trenta la società venne sciolta. Nel corso degli anni la struttura passò tra varie società e subì diversi cambiamenti, fino a quando il Comune non intervenne per la salvaguardia degli edifici, realizzando un centro polifunzionale aperto all’arte e agli eventi.

Come non parlare poi della Manifattura Tabacchi, fra i più fiorenti centri di produzione, appunto, del tabacco. Si pensi che nel 1958 occupava un’area di circa 60.000 metri quadri. Cessò la sua attività nel 1999; oggi è un polo culturale dedicato al cinema.

Manifattura tabacchi

Tutte queste aziende parlano con la città della loro storia, ma ci sono in particolare tre aree che testimoniano il passato, dialogano con il presente e sono pronte al futuro. La prima: l’area della Tortona, passata da zona industriale a vivissimo centro di arte e cultura. Al suo interno non si può che menzionare il Mudec, il Museo delle Culture, nato nel cuore dell’area dalla riconversione dello storico stabilimento elettromeccanico Ansaldo grazie a una grandiosa operazione del Comune di Milano. La seconda: tutta la zona della Bicocca, sede della Pirelli e oggi simbolo del passaggio da area industriale a polo di ricerca e innovazione, grazie anche alla presenza dell’Università. La terza: la zona di Sesto San Giovanni, anche essa sede storica di aziende (per esempio la Breda e la Falck), che oggi sta abbracciando una profonda trasformazione.

Tortona, da distretto produttivo a distretto creativo

Passeggiando per la zona Tortona, a sudovest della città (via Savona, via Tortona, via Solari e dintorni), a partire dalla stazione di Porta Genova fino a tutta l’area del Naviglio Grande si respira un’atmosfera particolare.

Esercizi commerciali e show room ricavati da ex opifici, fabbriche dismesse e riconvertite in laboratori, studi, gallerie d’arte, una passerella che attraversa i binari e unisce la zona di Porta Genova con quella di via Tortona, in sostituzione dello storico ponte di ferro chiuso per motivi di manutenzione. La zona Tortona appare un cuore pulsante di attività artistiche, di design e innovazione.

Accanto all’aria di continua sperimentazione, però, il passato si affaccia sempre. Solo per citare qualche esempio, è impossibile tralasciare Superstudio, in via Forcella, importante polo di studi fotografici. L’ambiente è stato ricavato dalle strutture che, nel corso degli anni, hanno accolto una fabbrica di biciclette, un’azienda per la produzione di macchinari e componenti elettriche e vari artigiani di supporto alle attività industriali. Negli spazi della General Electric, in via Tortona, trova sede oggi Superstudio Più. O ancora: si possono nominare la Barattini, la nota acciaieria Riva Calzoni, la Richard Ginori, azienda lungo il Naviglio Grande che produceva ceramiche fino agli anni Settanta. Insomma, la zona Tortona racchiude la storia di un vero e proprio centro produttivo.

La trasformazione da zona agricola a zona industriale avvenne dopo gli anni Sessanta dell’Ottocento. Con la costruzione della ferrovia, in automatico crebbe il numero delle industrie – e di conseguenza degli operai. Il senso della comunità era particolarmente forte. In questo contesto, la via Tortona in particolare può essere considerata l’asse principale su cui si snodavano varie industrie; la già nominata General Electric e l’Ansaldo occupano da sole quasi tutta la via.

Ex Ansaldo, dalle locomotive all’arte e all’innovazione

L’Ansaldo in particolare merita un discorso più approfondito. Uno fra i luoghi simbolo dell’industria milanese posto tra la via Tortona, via Stendhal, via Savona e la via Bergognone, con i suoi oltre 70.000 metri quadrati, oggi ospita varie attività culturali, fra le quali il progetto BASE, i laboratori del Teatro alla Scala e il museo delle Culture (per un’area di circa 17.000 metri quadrati), sorto grazie a una brillante operazione del Comune di Milano.

Le origini di questa imponente struttura risalgono al 1904: l’impresa Roberto Zust insediò le prime strutture produttive. Nel corso degli anni passò a molteplici proprietà, ampliandosi. I capannoni sono collegati alla stazione di Porta Genova attraverso binari di raccordo su cui si poteva assistere a un viavai di convogli carichi di merci. La struttura passò poi all’Ansaldo nel 1966, per la produzione di locomotive, carrozze ferroviarie e tranviarie.

Anche in questo caso va notato un forte senso di comunità fra operai e società circostante. La progressiva dismissione dello stabilimento iniziò negli anni Ottanta, in linea con il processo di deindustrializzazione dell’intera zona. L’impatto fu drastico: per molti anni nella zona non si insediarono nuove attività, lasciando il quartiere in uno stato di progressivo abbandono dovuto anche alla mancanza di lavoro. Ma gli spazi industriali dismessi rappresentavano un’opportunità, e se tutta la zona piano piano iniziò a rinnovarsi grazie a idee e progetti che l’hanno resa una fra le zone più fertili e creative di Milano, nel 1989 il Comune di Milano acquistò l’area in disuso dell’Ansaldo con il vincolo di utilizzo a servizi culturali. Le prime assegnazioni al Teatro alla Scala per i suoi laboratori avvennero nel 1994.

Nel 1999 il Comune di Milano ha lanciato un concorso internazionale per la riconversione, vinto dall’architetto David Chipperfield. Il processo di intervento ha visto il restauro di alcuni corpi di fabbrica e la costruzione di un nuovo edificio a forma libera e innovativa all’interno dell’ex stabilimento, oggi sede del Museo delle Culture, progettato per rivolgersi a linguaggi contemporanei e che accoglie testimonianze e culture del mondo, nell’ottica di rendere la diversità un punto di forza. Diviene così un polo culturale che intesse un dialogo con le comunità internazionali presenti a Milano, rinnovando quel senso di comunità tipico del passato.

Del Corno: “Manteniamo l’idea della produzione”

“La questione va inquadrata in tutta la trasformazione complessiva che l’insediamento industriale ha attraversato – spiega Filippo Del Corno, assessore alla Cultura del Comune di Milano – attraversando anche fasi tortuose prima di ottenere la sua identità, che arriva oggi con la molteplicità di funzioni che quel luogo riesce a esercitare. Oggi i musei non sono soltanto luoghi in cui si conservano o si espongono le opere d’arte, ma sono veri e propri centri di ricerca che sostengono iniziative dal punto di vista culturale; ricordano quindi il processo di fabbricazione legato al nostro immaginario”.

Nell’ex Ansaldo, dunque, è stato mantenuto, pur con funzioni diverse, quel volto produttivo appartenente al passato. “È importante – prosegue Del Corno – che questa riconversione culturale non musealizzi il quartiere e la struttura, ma mantenga questa idea industriale di produzione. Oggi quel distretto prima molto industriale è percepito come distretto di creatività, legato all’industria creativa. La zona dunque passa da processo industriale produttivo a processo industriale creativo. Mudec produce arte, cultura e occasione di relazione e rapporto per le nuove comunità che abitano la nostra città. Io ripeto sempre che dalle differenze fra le culture nasce la cultura delle differenze.  Viene permesso alle comunità di sentirsi parte di questo cambiamento, generando queste nuove forme di appartenenza cittadina. Da una parte le comunità di cittadini trovano le loro matrici; dall’altra sono orgogliosi di essere i milanesi del nuovo millennio. Il Museo delle Culture fa sì che i cittadini trovino appartenenza, scambio, dialogo con la città intera”.

Ecco allora che il passato si rinnova, cambia linguaggio ma continua a parlare all’intera zona, non scavalcando quell’idea di produttività e di appartenenza legata al mondo industriale dell’epoca.

Viaggio nel quartiere Bicocca

Campi agricoli e cascine. Di certo le persone che alla fine dell’Ottocento abitavano nel quartiere Bicocca, ubicato nella zona nord di Milano ai confini con Sesto San Giovanni e Cinisello Balsamo, non si sognavano neppure che quella zona sarebbe divenuta prima l’emblema dell’industrializzazione in Lombardia e poi uno fra i simboli più noti della cultura e della ricerca.

Gli inizi del Novecento furono anni di profonde trasformazioni: lo sviluppo del settore elettrico-automobilistico e l’apertura nel 1906 del traforo del Sempione, che aprì le porte al Nord Europa, furono nodi fondamentali per il processo di industrializzazione del quartiere. Piano piano i terreni rurali vennero inglobati nell’espansione edilizia e molte imprese collocarono lì la loro produzione. Le principali, la Breda e la Pirelli.

Del resto Giovanni Battista Pirelli era un giovane che fin da subito si dimostrò capace di cogliere gli input provenienti dall’estero. Laureato al Politecnico di Milano, fu proprio durante uno dei suoi viaggi d’istruzione che capì le potenzialità della lavorazione della gomma, portando in Italia una nuova industria dedita alla lavorazione del caucciù. Manufatti in gomma prima, articoli per il consumo come impermeabili o borse dell’acqua calda, cavi isolati per il trasporto di energia elettrica e infine pneumatici permisero alla Pirelli di raggiungere un’espansione notevole.

Sottolinea Antonio Calabrò: “Pirelli nasce internazionale. Giovanni Battista Pirelli scopre la lavorazione della gomma mentre è in viaggio d’istruzione dopo la laurea al Politecnico; il primo uomo d’azienda accanto a Gianbattista Pirelli è un francese; la stessa materia prima è internazionale, il caucciù. All’interno di Pirelli fin dalla nascita c’è questa attitudine a pensare mondo che segna tutto il resto dello sviluppo dell’azienda”.

Il primo stabilimento della Pirelli di via Ponte Seveso (oggi via Fabio Filzi) realizzato nel 1873 diventò presto piccolo, e nel 1908 la Pirelli acquistò un primo lotto di terreni di 170.000 metri quadrati tra i Comuni di Greco e Niguarda. Vi iniziarono a lavorare 350 persone. Racconta Moneta Nucci, abitante storica del quartiere Bicocca: “Io sono nata nella casa ringhiera qui vicino. Prima c’erano delle cascine, si chiamavano la Corte nuova e la Corte vecchia. Io ho sempre sentito i racconti di mio zio e di mio papà su queste cascine in cui abitavano i mei nonni con i loro figli. Era una vita un po’ pesante perché era quella del contadino. Quando la Pirelli ha comprato questi terreni è sorta la casa di ringhiera. Eravamo circondati dalla Pirelli ma, essendo una fabbrica, non era permesso entrare in questi edifici. Noi li vedevamo soltanto dalla ringhiera”.

Pirelli: una città nella città

Nel 1917 venne acquistato un nuovo lotto (comprendente la storica Bicocca degli Arcimboldi) e la superficie salì a 220.000 metri quadrati, con un crescendo continuo di nuovi reparti industriali, uniti ai laboratori chimici per la ricerca, punto cardine della cultura di Pirelli. Il picco di lavoratori venne raggiunto nel 1948, con oltre 20.000 addetti, mentre la massima espansione dell’area Pirelli fu toccata negli anni Settanta, con oltre 700.000 metri quadrati.

Il complesso della Pirelli era ed è una città nella città. Ancora visibili sono le casette del Borgo Pirelli, realizzate per i dipendenti tra viale Sarca e via Rodi; il campo sportivo, una scuola, una mensa all’avanguardia, progettata dagli architetti Chiodi e Minoletti, che funzionava a self service, pratica allora poco nota in Italia. Gli edifici, per l’epoca, erano ultramoderni; alcuni erano legati tra loro da un ponte di collegamento. La comunità si sviluppò attorno alla Pirelli, tanto che persino la stazione ferroviaria divenne Stazione Greco Pirelli.

Nel 1950 venne inaugurata la monumentale torre di raffreddamento, una torre in cemento armato alta 46 metri con profilo a iperbole, chiamata, come ricorda Moneta Nucci, il “caminone”. La torre serviva per raffreddare l’acqua che proveniva dal processo produttivo per poi riutilizzarla. Il motivo della sua realizzazione sta nel fatto che le disponibilità energetiche di allora non coprivano il fabbisogno dell’intera Italia, e di conseguenza Pirelli realizzò un vero e proprio impianto termoelettrico autonomo. Una piccola nota sulla Bicocca degli Arcimboldi, nota agli abitanti come il “castello”: risalente al Quattrocento, era una villa da caccia. Quando la Pirelli la comprò, l’edificio assolse a diverse funzioni: una casa collegio per alunni disagiati, asilo per i figli dei lavoratori, Museo Storico delle Industrie Pirelli e infine – ancora oggi – la sede di rappresentanza del Gruppo.

La riconversione della Pirelli

Dagli anni Settanta iniziarono a cambiare i metodi di produzione e ad avanzare i processi di terziarizzazione e automazione. Di conseguenza la manifattura cominciò a essere spostata altrove. Gli stabilimenti Bicocca furono dismessi progressivamente, fino a chiudere attorno alla metà degli anni Ottanta. La dismissione è raccontata dagli affascinanti scatti fotografici di Gabriele Basilico e dal documentario La fabbrica sospesa di Silvio Soldini.

Pirelli lanciò un concorso internazionale per la riqualificazione degli impianti. L’obiettivo era di collegare l’area aziendale a ciò che le stava attorno, dandole nuova vita. A vincere il concorso nel 1988 fu lo studio Gregotti Associati. Il progetto era immenso: la storica torre di raffreddamento venne lasciata come testimonianza del passato, ma rinnovata con una nuova funzione. Fu così inglobata in un innovativo cubo che diventò la sede del quartier generale del Gruppo (l’Headquarters Pirelli). Completato nel 2003, l’edificio è destinato agli uffici collegati alla torre tramite passerelle, mentre una vetrata di 1.800 metri quadrati si affaccia sulla Bicocca degli Arcimboldi. In fondo alla torre un auditorium è dedicato a eventi aziendali ma anche aperti al pubblico, mentre all’ultimo piano c’è un eliporto.

Il progetto è proseguito dagli anni Novanta in poi con la realizzazione del Polo Universitario Milano Bicocca, costruito mantenendo vivo quel senso di archeologia industriale tipico dei vecchi edifici ormai non più esistenti, sia nei colori sia nell’architettura. Una riconversione a fabbrica di cultura e ricerca, quella della Bicocca, perfettamente integrata nell’età attuale ma in costante dialogo con il passato. L’unico edificio rimasto intatto è la palazzina degli anni Trenta, oggi sede della Fondazione Pirelli. Ristrutturata dallo Studio Cerri & Associati, conserva anche l’Archivio storico della Pirelli: oltre 3 chilometri di documenti e foto sulla storia e l’attività del gruppo.

Un’ultima nota riguarda la dismissione dell’area legata alla Società Italiana Ernesto Breda, azienda attiva nella produzione di carrozze ferroviarie e locomotive, ubicata tra Milano e Sesto San Giovanni. Qui ha sede la Pirelli Hangar Bicocca, fondazione nata nel 2004 che si dedica all’arte contemporanea. Luogo di sperimentazione e ricerca di circa 15.000 metri quadrati, ospita la celebre mostra permanente di Anselm Kiefer, I sette Palazzi Celesti. “Investiamo sull’arte contemporanea perché riteniamo che proprio il suo sguardo speciale consenta di capire anche i segnali più deboli delle trasformazioni in corso”, sottolinea Calabrò.

Quando le fabbriche Pirelli divennero obsolete e la produzione si spostò altrove, investendo anche sugli stabilimenti internazionali e seguendo così la vocazione culturale d’impresa, “l’intuizione è stata farne un esempio di come da fabbrica di oggetti si possa passare a fabbrica di idee. Bicocca può diventare un punto in cui si concentrano laboratori di ricerca, innovazione e formazione. Tutto questo si fa in un momento molto particolare della storia di Milano, un momento in cui quel processo di crisi degli apparati produttivi tradizionali è diventato larghissimo”.

Sono anni difficili, gli anni Novanta, segnati dalla profonda ferita di Tangentopoli. Ma il progetto Bicocca va avanti. “La missione è segnare in positivo il destino della città”, continua Calabrò. “Tutto quello che è passato sta dentro l’idea della funzionalità della trasformazione. Hangar non è un monumento della memoria, ma un’attività contemporanea; l’archivio storico è pensato per una funzionalità contemporanea. È uno sguardo diverso, che separa lo storico da un uomo di impresa. Lo schema è: ho una memoria, rendo attuale quella memoria, per gli esterni e per gli interni, ne faccio una funzione di crescita economica, ne misuro anche il valore e organizzo i processi per continuare a conservare la memoria per il futuro. Ci piace ripetere la vecchia definizione di Mahler sulla tradizione, che non è custodia delle ceneri ma culto del fuoco”.

La Bicocca, dunque, è ora una fabbrica di idee.

La parabola di Sesto San Giovanni

Per chiudere il cerchio è necessario parlare di un’area appena fuori Milano che ha conosciuto uno sviluppo industriale fortissimo: Sesto San Giovanni.

Tra Ottocento e Novecento a Sesto sorsero diverse fabbriche. Fra le principali, c’era la Breda (al confine tra Milano e Sesto, iniziò a smembrarsi dagli anni Ottanta e oggi è occupata da nuove aziende e distretti commerciali, da nuovi insediamenti dell’Università Bicocca e dal Parco archeologico Industriale, in cui è a sua volta inserito il Centro Culturale Spazio MIL Carroponte), la Magneti Marelli (oggi dimora di centri direzionali di importanti aziende, alberghi e una sede dell’Università degli Studi di Milano) e le acciaierie Falck.

Sara Zanisi è la responsabile della comunicazione della Fondazione ISEC (Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea). Studiosa in un gruppo di ricerca che indaga le dismissioni industriali di Sesto San Giovanni, è fra le autrici di un documentario prodotto nel 2015 da ISEC, Università degli studi di Milano e Associazione A Voce, dal titolo Il polline e la ruggine. Memoria, lavoro, deindustrializzazione a Sesto San Giovanni (1985-2015). Alle nostre domande sulla storia del comune ha risposto: “Sesto San Giovanni era la città delle fabbriche, la Stalingrado d’Italia. La sua parabola industriale inizia proprio agli inizi del Novecento: è il classico borgo che si trasforma; da borgo rurale (ville padronali con appezzamenti dedicati soprattutto alla cultura del baco da seta), a fine Ottocento inizia a essere individuato come polo interessante per lo sviluppo industriale di Milano, fondamentalmente perché Sesto si colloca su un’asse ferroviario importante. Questo grande sviluppo ha due momenti di picco legati alle due grandi Guerre mondiali: molte fabbriche diventano belliche, con un boom di produzione e quindi di occupazione. In realtà già dopo la Seconda Guerra mondiale inizia il processo di dismissione. Un processo molto lungo”.

Si partì nel 1951 con la chiusura della Breda sezione aeronautica, e si proseguì negli anni Settanta con la dismissione della Osva (storica azienda produttrice di articoli per ferramenta e poi di elettrodomestici, N.d.R.); negli anni Ottanta fu dismessa la Marelli, per finire, negli anni Novanta, con la dismissione della Falck. “Negli anni del boom, gli anni Sessanta, c’era ancora uno sviluppo occupazionale anche se più frenato”, spiega Sara Zanisi. “Altro elemento penalizzante è la crisi del petrolio, nel 1973. Sono gli anni di inizio della contrazione occupazionale e della ristrutturazione delle fabbriche. A Sesto si parla di imprese che davano occupazione a migliaia di lavoratori, per cui anche la riduzione del personale e la ristrutturazione degli spazi erano molto più evidenti.”

“A partire dagli anni Settanta fino a metà degli anni Novanta si assiste quindi a un processo di contrazione continua dell’occupazione fino a che si arriva proprio alla chiusura delle fabbriche. Per tutte le acciaierie un altro anno penalizzante è il 1989, con la caduta del Muro e l’apertura dei mercati dell’Est. Sesto è un laboratorio interessante perché si possono vedere tutti i fenomeni, sia di trasformazione produttiva, sia di rigenerazione. Alcune zone sono ancora in trasformazione, per esempio la ex Falck. Ci sono poi altre migliaia di metri quadri di piccole aziende. Sesto è nota per le grandi fabbriche, ma aveva anche tante piccole officine che lavoravano nell’indotto. Queste piccole officine hanno visto quasi sempre chiusura e abbandono: la quantità maggiore di spazi è ancora inutilizzata, anche se ci sono studi per trasformarle.”

I dati forniti dalla ricerca Laboratorio industria, realizzata nel 2015 da ISEC e dall’Università degli studi di Milano con il contributo della Regione Lombardia, mettono bene in evidenza il trend occupazionale a Sesto San Giovanni nei vari settori industriali (fonte Ires 2003): se nel settore manifatturiero nel 1981 la percentuale di occupati è pari al 59,1%, nel 1991 nel medesimo settore la percentuale è pari al 46,4%. Aumenta invece il settore delle costruzioni (passando da una percentuale di occupati pari al 4,2% nel 1981 al 6,25% nel 1991) e il terziario (passando dal 36,35% al 47,2%). È evidente dunque il passaggio dall’industrializzazione al settore terziario, in linea con le altre zone milanesi.

Ascesa e declino della Falck

La Falck fu fondata nel 1906 da Giorgio Enrico Falck. L’azienda crebbe molto nel corso degli anni. Attorno agli anni Sessanta i dipendenti erano oltre 16.000; anche in questo caso, così come già visto per la Pirelli, attorno all’azienda si sviluppò un forte senso di comunità. Così come avvenne per il Borgo Pirelli, anche qui nacque il villaggio Falck: il nucleo originario fu edificato nel 1908 dall’ingegner Attilio Franco, e negli anni Venti si sviluppò il vero e proprio villaggio. Esso accoglieva i lavoratori e aveva tutto ciò che serviva ai suoi abitanti: le case, una scuola, uno spaccio, il campo sportivo, piccoli orti.

Come già detto, però, dagli anni Ottanta inizia il periodo della contrazione occupazionale, fino alla chiusura della storica ditta alla fine degli anni Novanta (secondo i dati forniti da ISEC nella ricerca sopra citata, i dipendenti della Falck sono 8.107 nel 1987, 7.715 nel 1988, 7.364 nel 1989, 6.483 nel 1990, 5.213 nel 1991, 4.390 nel 1992, 3.816 nel 1993, 3.565 nel 1994, 2.075 nel 1995, 1.017 nel 1996, 883 nel 1997 e appena 807 nel 1998).

L’area Falck è rimasta dismessa per molti anni. Oggi è al centro di un processo di riqualificazione che vede, fra le altre cose, la realizzazione della Città della Ricerca e della Salute – il megaospedale dove è previsto che si sposteranno il Besta e l’Istituto dei tumori – insieme a una vasta area con funzione residenziale, commerciale e servizi. La sua chiusura, però, resta una ferita aperta. Il documentario Il polline e la ruggine rievoca la memoria di chi aveva lavorato alla Falck attraverso interviste a ex operai, ex manager, sindacalisti, impiegati: tutte persone che hanno vissuto il processo di trasformazione.

“È a cavallo tra l’Ottanta e il Novanta che succede tutto. Da lì si modificano un po’ le cose”, afferma un dipendente Falck nel video. “Io avrei scommesso di andare in pensione in Falck. Mai mi sarebbe venuto in mente di pensare che un giorno avrei dovuto lasciare la Falck per un’altra società”, commenta un’altra ex dipendente. Sono tutte voci che segnano l’attaccamento profondo tra operai e azienda, legame che resta vivo in tutte le imprese che, ormai, appartengono al passato.

Ritrovare il senso di comunità

Al di là del fatto che in molti casi la chiusura delle fabbriche ha previsto un percorso di accompagnamento e di formazione per gli ex operai (è accaduto per la Falck, per esempio, ma anche per la Pirelli e per molte altre aziende), è un avvenimento che lascia il segno nei dipendenti.

“La chiusura delle fabbriche è un percorso traumatico, che ha una trasformazione lunga e che ha conseguenze culturali anche nel tempo presente”, sottolinea Sara Zanisi. “Le conseguenze principali sono una perdita di senso per chi ha lavorato nella fabbrica; proprio per chi è appartenuto a questa comunità, la chiusura dello stabilimento segna un taglio con i legami comunitari che c’erano. Soprattutto gli operai ci dicevano che non mancava loro il lavoro in fabbrica – non ne hanno nostalgia perché lavorare in acciaieria era molto duro – ma proprio quel senso di comunità che si creava. La perdita del legame comunitario, parlando più in generale, oggi è evidente: non ci sono comunità di lavoratori, e quindi manca la possibilità di farsi forza l’uno con l’altro. Il percorso è più individualistico”.

Le grandi industrie del passato avranno anche chiuso, portando con loro un’intera epoca. Le nuove fabbriche di cultura, però, stanno lavorando proprio in questa direzione: ricreare quel senso di comunità che era alla base del rapporto tra fabbriche, operai e persone circostanti.

 

 

CONDIVIDI

Leggi anche

Con gli operai 4.0 la soluzione viene dal basso

Possibile che un’operazione svolta da tre operai possa costare meno di quella progettata per essere eseguita da due? Sì, è possibile. E non è una leggenda metropolitana. Questa storiella – che illustra in poche righe che cosa significa cambiare in meglio il lavoro – è accaduta qualche anno fa a Pomigliano, quando nella grande fabbrica […]