Da flessibili a immobili: due generazioni a cavallo del Jobs Act

“Flessibili”. Nel Jobs Act quella parolina che fino a metà degli anni Novanta rappresentava per tutti coloro che cercavano lavoro, una competenza roboante quanto intangibile da inserire nel proprio curriculum, non c’è. Un aggettivo che non voleva dire assolutamente nulla (a meno che tu non fossi un tubo di gomma), ma che piazzato lì, in fondo […]

“Flessibili”. Nel Jobs Act quella parolina che fino a metà degli anni Novanta rappresentava per tutti coloro che cercavano lavoro, una competenza roboante quanto intangibile da inserire nel proprio curriculum, non c’è. Un aggettivo che non voleva dire assolutamente nulla (a meno che tu non fossi un tubo di gomma), ma che piazzato lì, in fondo al foglio, faceva il paio insieme a “predisposizione a lavorare in team” e “comprovato orientamento alla leadership

Era l’equivalente del finale delle fiabe …”e vissero tutti felici e contenti“, lo “zan zan” con cui il quintetto d’archi terminava la marcia. Insomma, serviva a non lasciare appeso il discorso. Chiudeva il curriculum.

Per i direttori del personale era il passe-partout con cui chiedevi ai candidati di accettare un contratto Co.Co.Pro ma anche Co.Co.Co e se possibile Qui.Quo.Qua, di avere un orario di lavoro “esteso” fino a 12 ore giornaliere senza necessariamente fare appello ad uno straordinario, di accettare di essere spostato d’ufficio, trasferito di città, esiliato in un altro Paese. O anche semplicemente cambiato di ruolo o disponibile ad altro che non fosse necessariamente ciò per cui sei stato assunto.

“Flessibile”. Che parola meravigliosa, dalle mille sfumature.

Per il Jobs Act la flessibilità non è più un valore; se prima l’azienda ti chiedeva di dimostrare le tue ampie vedute, ora è  la legge che ti impone l’ancoraggio.

Il contratto a tutele crescenti fa si che ogni volta che cambi posto di lavoro, i tuoi diritti ripartono dal via. Un paradigma marmoreo per chi lavora fra Vicolo Corto e Vicolo Stretto o nei ministeri e nella Pubblica Amministrazione, ma che manda invece per aria anni di dottrine manageriali con le quali, a ragione, si teorizzava quanto la contaminazione fra generi, fra esperienze, fra progetti di aziende diverse portasse aria nuova, idee migliori, crescita intellettuale.

Un ritorno al passato non da poco, se è vero che i nostri padri entravano in azienda e da lì uscivano solo da pensionati. Anni in cui i direttori del personale (di cui una lunga coda ancora resiste e inquina gli ambienti…) premiavano i curriculum in cui in 20 anni si aveva fatto al massimo due cambiamenti. Quattro cambiamenti, il candidato è instabile!

Ma è anche vero che la formazione, la meritocrazia, il benessere generale di quegli anni si incrociava con valori quali la fedeltà reciproca fra azienda e dipendente e il senso di appartenenza. Valori che non sono più sul podio della motivazione dei nuovi dipendenti.

E così proprio coloro che si sono presentati per rottamare un modello industriale e istituzionale arido e immobile, finiscono non per legittimarlo, ma addirittura per legalizzarlo poiché le tue tutele (come dice il nome stesso) sono crescenti (e quindi a minor rischio di licenziamento), laddove sarai più immobile. Immagino un futuro dove esplorare nuove soluzioni, sperimentare da un settore ad un altro per meglio qualificarsi, per meglio formarsi, per conoscere modelli nuovi che possano far crescere le aziende, sarà un rischio, un azzardo su cui difficilmente metteremo in gioco famiglia, affetti, un mutuo.

Perché in definitiva è questo il vero ostacolo alla crescita di una generazione; il divario fra un eco-sistema a tutele crescenti e l’istituzione bancaria che invece si vuole tutelare fin da subito.

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