Il diversity management e le donne childfree

Diversità significa ricchezza, specialmente nel mondo del lavoro. E l’espressione diversity management, proposta per la prima volta da Maria Chiara Barabino, Benedicte Jacobs e Antonella Maggio nel saggio Il diversity management (2001), indica proprio l’approccio integrato alla gestione delle risorse umane, finalizzato a creare un ambiente professionale inclusivo e incoraggiante, espressione delle peculiarità individuali, quali […]

Diversità significa ricchezza, specialmente nel mondo del lavoro. E l’espressione diversity management, proposta per la prima volta da Maria Chiara Barabino, Benedicte Jacobs e Antonella Maggio nel saggio Il diversity management (2001), indica proprio l’approccio integrato alla gestione delle risorse umane, finalizzato a creare un ambiente professionale inclusivo e incoraggiante, espressione delle peculiarità individuali, quali forza propulsiva per il raggiungimento degli obiettivi aziendali.

Ciononostante, secondo dati ISTAT diffusi a dicembre dello scorso anno, sono circa 10 milioni le donne italiane che rinunciano al lavoro a causa degli impegni famigliari. Sempre più spesso la decisione di portare avanti una gravidanza fa sì che un alto numero di donne si ritrovi di fronte all’annosa dicotomia: lavoro o genitorialità? Scegliere la seconda strada implica sovente l’interruzione del rapporto di lavoro in essere, o comunque la rinuncia a incarichi professionali, ritenuti appetibili.

La scelta della maternità, insomma, rimane per molte una questione spinosa, soprattutto se messa a confronto con investimenti importanti in termini accademici, in un paese dove la questione di genere resta ancora ai margini del dibattito.
Nonostante la maggiore tenuta del lavoro femminile nel periodo post-crisi, il numero delle donne occupate in Italia rimane senza dubbio inferiore a quello dell’UE: basti pensare che nel 2014 il tasso di occupazione femminile si attesta al 46,8% contro il 59,5% della media UE. Da ciò deriva l’impressione, sempre più netta, di vivere in una società, dove riprodursi è un dovere, secondo cui il valore di una donna sembrerebbe debba essere misurato attraverso la sua capacità di essere madre.

Ciò nondimeno, all’interno di questo stesso contesto, è sempre più frequente la scelta di mettere in discussione il modello famigliare tradizionale, parallelamente alla decisione di partecipare in modo attivo al mondo del business.

Nei paesi anglofoni le chiamano children-free, no-mamas; ma è stato il settimanale statunitense Time a dedicare per la prima volta una copertina a chi si definisce apertamente childfree. Nella lingua italiana non esiste una parola che contenga una negazione, come “senza figli” o “ non madre” per definire le donne che vivono questa condizione — commenta Marilisa Piga, regista e autrice, assieme a Nicoletta Nelser, del web doc Lunàdigas dedicato alle donne italiane che scelgono di non avere figli e alle pressioni sociali che esse subiscono — Così è nata l’espressione che dà il nome al web doc: in sardo indica le pecore che non hanno figli.
Perché la genitorialità è una scelta difficile, alla quale dovrebbe dedicarsi solo chi se la sente veramente; una scelta che non è al riparo da dubbi e che trae spunto da cambiamenti sociali profondi.

Secondo Marilisa Piga, non esiste un profilo tipo della Lunàdigas. Così che, le molteplici scelte alla base di questa decisione potrebbero essere paragonate alle impronte digitali. Spesso, però — prosegue Piga — nell’ambiente di lavoro, le donne senza figli sono anche percepite come persone disponibili a straordinari e sostituzioni, sia da parte del datore di lavoro che delle colleghe con prole.

Dunque, ci si chiede, l’effetto della diversità consiste realmente nella disparità fra chi può andare via prima dall’ufficio e chi no, sulla base dei bambini che attendono a casa?

Secondo Amy Blackstone, docente di sociologia all’Università del Maine, non tutte le donne childfree scelgono, di conseguenza, di dedicare tutto il proprio tempo alla carriera; e la scelta fra lavoro e tempo libero appare anche a queste donne come una vera e propria dicotomia. È raro che un datore di lavoro pensi che la professionista senza figli sia anche in cerca di uno spazio al di fuori del contesto aziendale; ecco perché, prosegue Blackstone, il mondo del lavoro potrebbe certamente fare di più per dimostrare il proprio apprezzamento nei confronti di tutte le dipendenti, non solo nei confronti di coloro le quali scelgono di non essere madri.

La causa di questa reticenza? Secondo Blackstone è rintracciabile in un vero e proprio ritardo culturale, effetto della mancanza di responsabilità da parte del mondo politico occidentale: non si ha la percezione del crescente numero di childfree nel mondo del lavoro, così come dell’esigenza, comune anche a queste donne, di trovare un equilibrio fra professione e tempo libero. La scelta childfree, quindi, non implica necessariamente mettere al primo posto la carriera, anche in quei contesti in cui viene tipicamente dato per scontato il rimando fra childfreehood e dedizione al lavoro.

Sovente si presume che una donna senza figli sia anche ambiziosa, che abbia faticosamente rinunciato alla maternità per perseguire i propri obiettivi professionali. E tuttavia, la maggior parte delle donne childfree compie questa scelta semplicemente perché non ha la volontà di essere madre.

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