Dress code in azienda: meglio tacito o scritto?

In un’era in cui l’immagine conta più delle parole, l’abito dovrebbe fare il manager. Con buona pace di chi pensa che in fondo vestirsi – e cosa indossare – è un fatto esclusivamente personale. In realtà, intorno all’abbigliamento in ufficio gravitano questioni che vanno oltre il buon gusto o l’essere in ordine, toccando temi più […]

In un’era in cui l’immagine conta più delle parole, l’abito dovrebbe fare il manager. Con buona pace di chi pensa che in fondo vestirsi – e cosa indossare – è un fatto esclusivamente personale. In realtà, intorno all’abbigliamento in ufficio gravitano questioni che vanno oltre il buon gusto o l’essere in ordine, toccando temi più sensibili come la libertà, il fare carriera, il rispetto degli altri, l’adeguarsi ad un contesto, il pregiudizio ecc.

Si potrebbe obiettare che la professionalità di una persona non passa da una camicia mal stirata o da una scarpa sbagliata, eppure alcuni uffici sono pieni di cravatte appese all’appendiabiti, da annodare al collo last minute in caso di “emergenza” cliente in arrivo. O di rossetti da passare sulle labbra prima della riunione improvvisa. Si tratta di regole non scritte che esprimono la contraddittorietà di fondo della questione abbigliamento in ufficio.

Da un lato c’è chi brama un codice da applicare a tutti i dipendenti, dall’altro c’è chi si appella alla libertà di vestirsi come pare e piace. I primi si sentirebbero rassicurati da un dress code comune, i secondi invece ne sarebbero soffocati. Salvo poi rammaricarsi se vedono il collega avanzare di carriera, perché vestito più consono all’azienda.

Ma se per un selfie si osservano le regole di luce e prospettiva per venire meglio in foto, perché l’abbigliamento deve essere scevro da diktat stabiliti o, meglio, suggeriti dall’azienda? È questo il punto cruciale: nessuno vuol dare una cattiva immagine di sé dal profilo di Facebook o su Linkedin, ma molti si risentono quando nella vita di tutti i giorni quella stessa immagine deve essere “vestita” dai capi o dai colleghi.

Probabilmente i più sfortunati sono gli uomini che lavorano in banca o in contesti finanziari: come possono demolire l’assioma della giacca e cravatta? Trovando conforto nel casual friday, che da gioco divertente, per imitare gli Americani, è diventato il simbolo del tentativo di alleggerire una settimana in chiusura.

Potrebbe sembrare noioso, eppure l’abito imposto risolve il problema della scelta quotidiana: è senz’altro più comodo indossare una divisa e non pensarci più, piuttosto che scegliere il colore di collant che si intona a quella gonna, e… a proposito qual è la lunghezza consentita? «Dipende dal contesto, signorina» – sembra echeggiare nelle orecchie la risposta del responsabile delle risorse umane. E qui la questione si fa più complessa: se in ambienti “rigorosi” un abbigliamento estroso non è indicato, in ambienti creativi è vivamente consigliato! Anzi, è decisamente controproducente mostrarsi senza un minimo di stile: cosa pensereste di un PR della moda che indossa abiti anonimi? O di un’impiegata di un ufficio comunale che veste con abiti da sfilata? In entrambi i casi, potrebbero sembrare inadeguati, a meno che non abbiano professionalità da vendere (con i fatti). E questo lo si può dimostrare solo con il duro lavoro: ma quanti hanno voglia di sfidare il pregiudizio insito al modo di vestirsi? Meglio adeguarsi al contesto. Dopo tutto siamo in Italia, la culla della Moda, con la M maiuscola.

In virtù della varietà dell’abbigliamento femminile, le donne in azienda sono più penalizzate, non tanto per una questione di genere, quanto statistica: è più probabile sbagliare abito quando l’offerta stilistica a disposizione è amplissima.

Qualcuno arriva a vietare gli abiti scollati (è il caso dal Rettore dell’Università Federico II di Napoli nell’estate 2015), qualcun altro i tacchi a spillo (un divieto imposto alle impiegate della Provincia di Modena, diventato famoso nel 2008), in alcuni ospedali i primari invitano le giovani dottoresse a non indossare un abbigliamento troppo allegro che potrebbe offendere la sofferenza del paziente, pur intravedendosi dal camice.

Tutte regole esagerate, certo, ma che ad una lettura più attenta possono essere interpretate come un tentativo di imporre un ordine laddove vige l’anarchia nel vestiario.

Ad essere malvista, infatti, non è solo la femminilità urlata attraverso una mise da pin up, ma anche un look casual troppo low profile: una donna vestita con abiti informi e scarpe da ginnastica in luoghi in cui gli uomini sono obbligati all’abito scuro evoca subito l’idea di inaffidabilità se non addirittura sottomissione, anche se è molto lontano dal vero.

Ecco che capire subito come ci si va vestiti in quell’azienda conviene a se stessi, alla propria carriera e, non da ultimo, alla propria serenità.

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