E pensare che volevamo solo arrotondare

Io Riccardo Staglianò avevo provato a coinvolgerlo un paio d’anni fa nella redazione di Senza Filtro; gli avevo mandato una mail, secca e senza giri di parole. La risposta fu altrettanto lineare – niente scuse, molta grazia – declinando l’invito per l’esclusiva con Repubblica. Le occasioni non si danno per vinte e stavolta è quella […]

Io Riccardo Staglianò avevo provato a coinvolgerlo un paio d’anni fa nella redazione di Senza Filtro; gli avevo mandato una mail, secca e senza giri di parole. La risposta fu altrettanto lineare – niente scuse, molta grazia – declinando l’invito per l’esclusiva con Repubblica. Le occasioni non si danno per vinte e stavolta è quella buona.

Staglianò ha da poco pubblicato per Einaudi un libro che ha voglia di infastidire l’ipocrisia mai sazia: lo ha intitolato Lavoretti e, come se non bastasse, in coda al titolo ha aggiunto Così la sharing economy ci rende tutti più poveri.

Lavoretto è un vezzeggiativo, gig economy suona invece altisonante e quasi sempre se ne fraintende il significato. Ripartiamo da una chiarezza linguistica, mettendo al loro posto le parole e le ricadute.

In generale c’è da diffidare quando si usano parole inglesi facilmente traducibili per riferirsi a faccende che hanno a che fare con il lavoro. In un’idea di mondo piuttosto provinciale si crede ancora che una mano di vernice anglosassone sia in grado di conferire una patina di modernità a qualsiasi cosa essa venga applicata. Purtroppo il più delle volte è una biacca data per nascondere realtà per niente desiderabili. Quanto alla sharing economy, l’impostura linguistica tocca livelli sublimi. La cosiddetta economia della condivisione è, già dalla scelta lessicale, un ricatto: chi può dirsi contrario alla condivisione? Solo un egoista, una cattiva persona. Questo nuovo volto del capitalismo è stato venduto, dalle migliori menti del marketing della Silicon Valley, come economicamente efficiente, ambientalmente rispettoso, socialmente giusto. Addirittura come una nuova infrastruttura di scambi basata sulla fiducia (chi farebbe entrare un estraneo in casa propria o sulla sua macchina, senza fiducia?). La verità purtroppo è un’altra. È un’infrastruttura, impensabile prima della Grande recessione del 2007-2008, basata sulla disperazione economica. Di colpo gli americani si sono risvegliati con una disoccupazione doppia rispetto all’anno prima o, per i più fortunati che non hanno perso il posto, con salari ridotti, risparmi dimezzati e debiti ai massimi. La somma di tutti questi fattori ha fatto sì che non si potesse essere troppo schifiltosi se ti offrivano un lavoretto. La crisi ha sdoganato definitivamente il bisogno di arrotondare. E la gig economy, l’economia dei lavoretti, è stata dunque la risposta sbagliata (perché, erodendo ulteriormente i diritti dei lavoratori e sottraendo imponibili fiscali ai Paesi in cui si svolgono le prestazioni, impoverisce tutta la società) a una domanda giusta. Quella di arrotondare, appunto.

Proviamo a mettere a fuoco che cosa stiamo concretamente svendendo ai big dell’economia e della finanza. Tutto ciò che vivevamo come passioni e interessi personali, loro li stanno usando per fare profitto. Più scaltri loro o più ingenui noi?

Nel libro ripercorro, in una specie di turbo-riassunto degli ultimi 40 anni di storia economica, alcuni snodi fondamentali che ci hanno portato al punto attuale. A mio modo di vedere, quei bivi cruciali sono stati il 1979, con l’inizio della globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia; il 2000, con lo sboom della new economy e la nascita del web 2.0; e il 2008 che, auspice la Grande recessione, ha partorito la gig economy. La tua domanda ha a che fare soprattutto con la seconda tappa. Dopo che molte aziende internettiane vanno a gambe all’aria perché basate su aspettative irrealistiche che non avevano niente a che fare con i fondamentali economici, invece di iniziare una seria autocritica gli ideologi della Silicon valley hanno un’idea geniale. Nel ‘79, per rispondere al calo del tasso di profitto, gli industriali decidono di andare a produrre in Cina, dove il salario di un operaio era un decimo del nostro. Adesso i manager delle compagnie tecnologiche vanno oltre, e dicono: se il lavoro lo facessero gli stessi utenti per noi ci sarebbe solo guadagno. È così che, al grido di user generated content, nasce il web 2.0. Parlo di Facebook, Flickr, Tumblr, Youtube e più tardi Pinterest e Instagram. Noi mettiamo le nostre passioni, i nostri like, le foto della fidanzata o del figlio; loro le monetizzano. Ovviamente noi riceviamo qualcosa in cambio: lo svago, le connessioni con vecchi amici persi di vista o quelle più fugaci con semplici conoscenti che chiamiamo amici abusivamente. Ma di fatto lavoriamo a nostra insaputa, rendendo i padroni delle piattaforme miliardari.

Non mi sembra che la sharing economy fosse ciò in cui l’abbiamo trasformata. 

C’è un grosso dibattito definitorio su cosa rientra e cosa no sotto l’ombrello di sharing economy. È condivisione il couchsurfing, per cui offro il mio divano a uno sconosciuto aspettandomi che un altro membro del network faccia altrettanto con me. E anche, Blablacar dove prendi un passaggio contribuendo alle spese. Ma che cosa condivide il fondatore di Uber Travis Kalanick, con i suoi circa 7 miliardi di dollari di fortuna personale, con uno dei suoi autisti, che spesso per campare è costretto a dormire nei parcheggi degli aeroporti per assicurarsi le corse migliori all’alba? Oppure: che cosa condivide il gestore di mille appartamenti di Airbnb, che racconto nel libro, con i suoi ospiti che non vede neppure? Niente. Solo la furba narrazione della crema delle pubbliche relazioni, che queste aziende hanno assoldato, ha fatto credere che ci fosse della condivisione là dove c’è un business se possibile ancora più estrattivo di quello cui eravamo abituati.

Le fasce giovani sono quelle più attratte dalla facilità dei “lavoretti”, sia per inesperienza contrattuale sia per la diffusa confusione nel mercato. C’è persino chi coglie l’aspetto positivo del fare attività fisica mentre consegna cibo in bici; spesso lo si sente dichiarare dalle loro stesse parole. Come potremmo restituire a chi si affaccia al primo lavoro una consapevolezza del lavoro come diritto?

Se è così, si devono essere bevuti il racconto favolistico. Personalmente non ho mai sentito nessun fattorino sostenere una panzana del genere: se uno vuole fare attività fisica va al parco, come e quando vuole lui, senza pettorina addosso, senza lo stress di consegnare una pizza entro un certo numero di minuti sia che piova o che nevichi, come è successo di recente. Invece la fola del “fare attività fisica” era scappata ai manager di un’importante azienda di consegne vie bici, che poi se la sono rimangiata. Il confine tra svago e lavoro è molto facile da individuare e non c’è neppure da perdere tempo a rimarcarlo: il primo è il regno della libertà, il secondo quello del dovere. Per alcuni fortunati, come il sottoscritto, il dovere può essere estremamente piacevole, ma non tutti condividono questo destino. Non è neppure vero che i lavoretti siano prerogativa esclusiva dei giovani. In America i baby boomers, quelli nati nel dopoguerra, sono il primo gruppo demografico a far ricorso alla gig economy per rimpinguare pensioni magre. In Gran Bretagna a gennaio è morto Don Lane, fattorino 58enne, che aveva saltato alcuni controlli medici per il suo diabete perché era stato redarguito dal suo datore di lavoro in occasione di visite precedenti. Quanto ai giovani, dovrebbero riacquistare una sorta di “coscienza di classe”. È difficile, perché in questi lavori intermediati dalla piattaforma non solo si hanno scarsi rapporti con i capi, ma ancora più scarsi con i colleghi. I lavoratori sono monadi che interagiscono con un algoritmo.

I sindacati stanno ancora a guardare. Il lavoro si è spostato e frammentato, ma loro, così come gli ordinamenti e le politiche dei governi, non danno segnali incisivi di interesse nel prendere posizione.

Dipende da quale Paese guardiamo. Ciò che dici è senz’altro vero dell’Italia, dove l’attenzione del sindacato tende a essere un po’ retroversa: tutela molto i pensionati, principale constituency di tesserati, e poco i giovani. Difende chi è dentro, non chi è fuori dal sistema. La situazione è diversa in Gran Bretagna, dove con l’aiuto di nuovi sindacati dal basso molte battaglie sono state vinte, e altre hanno buona probabilità di esserlo nel futuro prossimo. Parlo di scioperi e campagne che hanno portato aumenti di paga nell’ordine del 20-30 per cento in una singola campagna. Da quanto tempo non ricordiamo vittorie del genere? Nell’excursus storico racconto, tra l’altro, un paio di tappe campali della guerra della politica al sindacato, da Reagan alla Thatcher. Il risultato, non sempre sufficientemente chiaro, sta in un grafico che mostra come, a partire dagli anni ’80, negli Stati Uniti il salario è andato giù parallelamente alla diminuzione dei tesseramenti.

In che rapporto stanno lavoretti e welfare?

Un rapporto molto antagonistico. Nel senso che dove ci sono i primi generalmente langue il secondo. Uber e Airbnb, per limitarci a un paio di esempi, sono campioni olimpionici di elusione fiscale, ovvero la maniera legale ma immorale di minimizzare il proprio imponibile. Grazie a elaboratissime triangolazioni non pagano, o pagano in una frazione minuscola, le tasse nei Paesi in cui creano la ricchezza. E questo è un problema enorme per tutti: non solo per chi è protagonista della gig economy, ma anche per me e per te, lettore, che fai tutt’altro. Frank Field, il parlamentare britannico incaricato di un’audizione parlamentare sul tema, ha parlato di freeriding, vivere a sbafo del welfare, da parte di quei ragazzi che consegnano le pizze ma non riescono a pagarsi i contributi: se un giorno avranno bisogno di un ospedale, saranno gli altri contribuenti a pagarlo al posto loro. Philip Hammond, il ministro britannico delle Finanze, ha calcolato che a causa della gig economy mancheranno all’appello 3,5 miliardi di tasse entro il 2020-2021. In ultimo, nel 2014 Airbnb ha pagato 83 mila euro di tasse in Francia, il suo secondo mercato mondiale, contro i 3,5 miliardi di euro del settore alberghiero. Chi non paga le tasse toglie risorse anche a noi. Per questo il sottotitolo del mio libro è Così la sharing economy ci rende tutti più poveri.

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