E se rompessimo le uova nel Paniere dell’Istat?

Quando nel 1997 vivevo in Germania e preparavo la tesi di laurea, le bacheche universitarie erano piene di annunci coi quali gli studenti offrivano un passaggio in macchina per dividere i costi del viaggio: bastava indicare la data, il tragitto, il numero di posti disponibili e lasciare un recapito. Tutto trasparente, efficiente, per noi futurista: […]

Quando nel 1997 vivevo in Germania e preparavo la tesi di laurea, le bacheche universitarie erano piene di annunci coi quali gli studenti offrivano un passaggio in macchina per dividere i costi del viaggio: bastava indicare la data, il tragitto, il numero di posti disponibili e lasciare un recapito. Tutto trasparente, efficiente, per noi futurista: funzionava alla perfezione. Oggi in Italia, quasi vent’anni dopo, la maggior parte non sa neanche cosa sia il car pooling (molti lo confondono erroneamente con il car sharing, che invece indica il noleggio di un’auto a tempo) ma ha imparato a dire bene Bla Bla Car per intendere il fenomeno, come se la “marca” fosse sinonimo di una intera categoria di possibilità e azzerasse in un colpo solo tutti i competitors sul mercato. Di fatto Bla Bla Car è una piattaforma che conta circa 10 milioni di utenti in 14 paesi del mondo (anche l’India, dal 2015), introdotta in Italia nel 2012 ma nata in Francia nel 2006 quando Frederic Mazzella acquistò covoitourage.fr grazie ad una società che aveva fondato da poco e che derivava i suoi profitti da servizi paralleli di car pooling a pagamento.

Insomma, Bla Bla Car nasceva in azienda.

Il fatto mi è tornato in mente perché l’Istat ha appena pubblicato l’aggiornamento dei beni di consumo introdotti nel paniere 2015. Non c’è sito on line o testata che in questi giorni non abbia sottolineato con enfasi la notizia, ribattuta più o meno ovunque con queste parole: le abitudini degli italiani modificano i parametri di riferimento per il calcolo dell’inflazione, escono dvd e hi-fi, entrano i prodotti senza glutine, la birra analcolica e soprattutto il bike e il car sharing.

In molti hanno commentato facendo notare che finalmente l’Italia è diventata più sostenibile. Non credevo bastasse così poco: di certo si notano grandi progressi ma è soprattutto il buon senso dal basso che sta cambiando la nostra direzione di marcia, non certo le politiche dall’alto.

Anche l’inserimento della nuova voce “assistenza fiscale alla persona” nel paniere in vigore, poi reintegrata come “assistenza fiscale per il calcolo delle imposte sull’abitazione”, mi solleva qualche dubbio quando vedo che non pochi hanno cantato vittoria per il semplice fatto che l’Istat si sia accorto di questa incidenza di spesa non indifferente per imprese e famiglie. Mi chiedo se accertare la diffusione di una malattia rappresenti già un primo passo verso il suo debellamento: direi proprio di no.

Tra queste nuove voci inserite nel paniere 2015, il riferimento alla fiscalità locale della Tasi è più che esplicito. Alla fine di agosto del 2014, però, soltanto un comune italiano su due aveva deliberato gli importi delle aliquote che si sarebbero invece dovuti approvare e pubblicare on line – per chiarezza ai contribuenti – entro la metà di settembre ma i paracaduti erano già stati previsti per tutti gli enti inadempienti prevedendo lo slittamento a dicembre con un’aliquota fissa (tra l’altro mediamente svantaggiosa per i contribuenti). Già il solo fatto di orientarsi nella IUC (Imposta Unica Comunale), a sua volta ripartita dallo scorso anno in Tasi, Tari e Imu, aveva reso indispensabile per molti cittadini il ricorso ad un esperto fiscale per non rischiare sanzioni (sanzioni invece quasi mai previste per gli enti). Vorrei vivere in un Paese che considera un fattore di sostenibilità anche il rispetto verso i suoi cittadini.

La cultura della condivisione, che di fatto favorisce l’evoluzione del concetto di possesso a quello di accesso, non è però sempre rose e fiori. Che si noleggi un auto a ore o che si dia disponibilità alla Banca del Tempo, quasi mai ci si chiede: “Ma, sotto sotto, chi sostiene i costi sociali di questa sostenibilità e chi paga i costi della condivisione?”. Gli stati, prima di autoproclamarsi sostenibili, creino reti di protezione per tutti quei cittadini e quelle imprese che stanno rinunciando a possedere pur di produrre, tra l’altro con ricadute positive sull’intera collettività.

Non mancano però anche i casi limite. All’inizio di ogni anno fioccano classifiche che decretano le imprese più sostenibili a livello mondo e un’attenzione particolare va sempre al rating stilato dal gruppo Robeco SAM (specialista del finanziamento focalizzato sull’investimento sostenibile): a gennaio 2015 la Gold Class nel settore delle Utility Elettriche è andato a Enel, tra le sole quattro italiane premiate su quasi cinquecento ammesse. La diffidenza verso i riconoscimenti di facciata è però ormai altissima. Nell’aria si sente ancora l’eco del Sustainability Yearbook 2014 di Robeco Sam, quando la posizione d’onore andò a Fiat (già diventata Fiat Chrysler Automobiles) che nel frattempo aveva però trasferito sede legale in Olanda e quartier generale nel Regno Unito per usufruire di non pochi vantaggi sia fiscali che di diritto societario. Con un comunicato stampa del 30 gennaio 2014, Standard Ethics (agenzia di rating di sostenibilità, con sede a Londra) declassava intanto quella stessa Fiat “per le recenti scelte strategiche non conformi a principi di responsabilità sociale, di gestione degli stakeholders e di valorizzazione dei rapporti con gli azionisti di minoranza”.

Qualche mese fa, leggendo un’intervista a Frederic Mazzella sul fenomeno del car sharing nel suo Paese, mi colpì sentirlo dire che sì, in Francia la pressione fiscale è molto elevata ma le infrastrutture e i trasporti funzionano, il livello di educazione è molto alto e il contesto pubblico favorisce l’impresa. Che invidia e sarei anche curiosa di sapere cosa c’è nel loro paniere.

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