Editoriale 110. Di tutte le Russie

L’ignoranza si mangia le guerre a pranzo e cena, ci pasteggia sui giornali e sui social, si sazia in un baleno perché ha talmente tanto vuoto in pancia che le va bene tutto pur di riempirsi. È boom di vendite di libri dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina: per lo più saggi, tanta geopolitica, […]

L’ignoranza si mangia le guerre a pranzo e cena, ci pasteggia sui giornali e sui social, si sazia in un baleno perché ha talmente tanto vuoto in pancia che le va bene tutto pur di riempirsi. È boom di vendite di libri dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina: per lo più saggi, tanta geopolitica, biografie su Putin, libri di storia, e poi romanzi e romanzi, tanta letteratura russa perché niente come la letteratura ci risarcisce di ciò che la realtà non vuole dirci. Che si vendano più libri fa solo piacere, ci mancherebbe.

Davanti alle guerre – a certe guerre, quelle più vicine – le persone di colpo vogliono capire cose di cui non avevano né idea né interesse fino al giorno prima, e mai come adesso il giornalismo italiano fa vergogna per quanta falsità drena dalla storia mentre la storia accade. Mentre scrivo questo editoriale apro una pagina di Affaritaliani.it e vengo sommersa dalle classiche “notizie” clickbait: lì in mezzo, tra pubblicità e vergogne di altro genere, c’è persino un titolo Russia, è morto Vladimir Putin. Non resisto e faccio uno screenshot per tenermi a memoria futura il livello così basso a cui siamo scesi nel mescolare il commercio con le notizie, l’indifferenza con la storia, e sono convinta che migliaia di navigatori della rete ci metteranno il dito sopra quel click.

La storia è come la crosta terreste durante i terremoti: un giorno, all’improvviso, si spezza. Lo fa in un punto esatto, è un punto che all’improvviso diventa noto a tutti e prende il nome di un paese piccolo o di una città grande dove la terra ha scelto di aprirsi. Per giorni e giorni si parla solo di quel nome e solo di quel terremoto finché, tra scosse di assestamento e interesse mediatico, un po’ alla volta l’attenzione cala, fino a dimenticarsi sia della storia che della crosta terrestre che si sono ferite sul campo. In queste settimane di guerra siamo ancora nella fase delle scosse, con le telecamere puntate sul cratere e con l’ipocrisia tutta umana che al mondo interessi conoscere il destino di quella gente. Lo spartiacque tra la storia e i terremoti è solo uno: nel primo caso l’epicentro è prevedibile da tempo, anche se il mondo fa finta di non saperlo. La storia ogni tanto si apre perché ha bisogno anche lei di stare all’aria, ma non bisogna farla ossidare, non può stare aperta troppo a lungo.

Per noi europei questa è la prima guerra in diretta sui social e tutti i santi giorni subiamo la tentazione morbosa del credere di esser lì: l’effetto con cui da anni sovrapponiamo l’essere con l’apparire lo applichiamo paro paro anche alle guerre. Per questo prendiamo parola su tutto anche quando dovremmo tacere per ignoranza e per buon senso, e per questo ci arroghiamo il diritto di sapere ciò che non abbiamo mai letto né studiato in vita nostra.

Il rischio di ogni guerra è che nel bottino ci finiscano la cultura, l’arte, la musica, la letteratura, la lingua, la danza, le orchestre, i mestieri, i fili sottili che tengono in piedi il mondo da un capo all’altro, il patrimonio comune che intaglia i popoli da secoli. È il pericolo che fingiamo di non vedere mentre prendiamo posizioni favorevoli o contrarie: dovremmo armare la cultura dei popoli e la loro pace, non armare i Paesi aggrediti. Mai come in guerra purtroppo ci fanno credere che la verità non possa essere così banale.

Intanto però leggiamo libri nella speranza che col bestsellerista del mese, Dostoevskij su tutti, sia più semplice sentirci a posto con la coscienza. Fino al prossimo terremoto della storia.

Mai come durante le guerre va di moda l’abuso di una figura retorica come la sineddoche, in poche parole il sostituire due termini in relazione tra loro: la parte per il tutto o viceversa, il contenitore per il contenuto o viceversa, il singolare per il plurale o viceversa, il genere per la specie o viceversa. Per questo il nostro mensile parla di tutte le Russie come patrimonio culturale, uno dentro l’altro e non uno al posto dell’altro: la Russia non è solo Putin e la sua guerra.

Del senso delle matrioske, a quanto pare, non avevamo ancora capito nulla. 


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Foto di copertina: Anna Tis su Pexels

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