Editoriale 16. Fare affari con…

Ogni volta che penso al poker, penso all’export delle imprese italiane. La prima regola del gioco è osservare gli avversari: come tengono in mano le carte e quanto le guardano, come sono vestiti, dove buttano lo sguardo, se sono immobili o se le vene del collo pulsano, quanto li attirano o meno le chips che […]

Ogni volta che penso al poker, penso all’export delle imprese italiane.
La prima regola del gioco è osservare gli avversari: come tengono in mano le carte e quanto le guardano, come sono vestiti, dove buttano lo sguardo, se sono immobili o se le vene del collo pulsano, quanto li attirano o meno le chips che di solito stanno sul panno verde. Indizi apparentemente inequivocabili. Ma i veri giocatori sono tali proprio perché padroneggiano certe regole e alla fine vince solo chi riesce a sdoganare persino il bluff. Phil Hellmuth, dal 2007 nel Poker Hall of Fame, è il più grande giocatore di poker statunitense: poco più che quarantenne, è già convinto che la vincita dipenda per il 70% dalla capacità di leggere e interpretare i segnali involontari degli avversari e solo per il 30% dall’abilità tecnica.

Le nostre aziende, quando esportano e quando viaggiano per vendere, attivano canali di comunicazione di cui a volte non percepiscono minimamente il valore e sottovalutano dettagli che sono invece monumenti. Mediamente non conosciamo le lingue (parlando di industria dell’auto, ci hanno spiegato che sono la base di ogni relazione e che gli italiani migliori se ne vanno all’estero), pensiamo che avere un export manager straniero in azienda assicuri il successo (siamo andati in Belgio a chiedere conferma), nel fare trattative diamo sempre lo stesso valore al tempo – qualsiasi sia il paese – dimenticando che la circolarità orientale richiede logiche opposte (abbiamo imparato che dai proverbi millenari cinesi derivano le regole di relazione moderne), ci sbagliamo nel credere che la Germania sia così diversa e migliore di noi (a Berlino ci hanno spiegato quanto sia preziosa una nuova cultura delle relazioni), ci illudiamo che il Giappone stia tutto in un’alga nori solo perché “come si mangia in Italia, da nessun’altra parte” (e ci perdiamo il valore della sottrazione che insegna il Sol Levante), ci mettiamo in ridicolo promettendo Ferrari per strappare l’affare (è solo uno degli aneddoti di una manager globetrotter per una multinazionale con base in Italia), usiamo lo scudo del brand Italia illudendoci che sia un passepartout (dall’Ucraina alla Russia pensano che non sappiamo sfruttare il nostro potenziale), abbiamo paura del diverso e viviamo di troppi pregiudizi (ma l’Argentina ci assomiglia).

Per capire ancora meglio come poter fare affari, abbiamo persino indagato la diversa relazione aziendale con il capo, tra Italia e paesi anglosassoni. E poi il valore italiano nell’eCommerce, la sartoria che veste gli sceicchi e garantisce l’esclusiva, il settore calzaturiero che si è rifatto le suole per ripartire verso altri mercati, la tenacia della sostenibilità italiana nelle imprese medio piccole, le leve della lean con cui semplificare i processi e ridare al lavoro un’anima.
In Italia, quando diciamo export, è come segnare la metà campo con il metro: di qua al sicuro e di là il panico, l’eterna lotta tra l’attacco e la difesa, la paura di esporsi per non subire perdite. Le colpe arrivano da lontano e se oggi fatichiamo a stare belli dritti sui mercati internazionali è perché siamo stati sempre mal protetti. Le coperture statali e bancarie così forti negli ultimi decenni ci hanno indebolito, anzi non ci hanno proprio fatto crescere.
Siamo un paese al sole ma ne abbiamo preso poco. O, meglio, siamo un paese che non si è mai messo al sole senza aprire bene gli ombrelloni ma, oggi che l’economia si gioca all’aperto, è bene che le aziende tirino via in fretta i paletti e si spalmino solo una crema per correre insieme a quelli che non sono più solo turisti stranieri ma partner commerciali, competitor, prospect, negoziatori, colleghi.

In questo numero di Senza Filtro abbiamo voluto restringere così tanto il tema dell’internazionalizzazione che alla fine tutto è risultato più semplice perché è rimasto l’uomo che lavora, col suo immaginario sul resto del mondo. Siamo rimasti a guardare il professionista medio italiano cercando di non giudicarlo ma semplicemente disegnarlo. Sta a lui, ora, scegliere se sedersi o meno al tavolo verde internazionale e provare a non gesticolare troppo, a non parlare sempre e a conoscere meglio gli altri.

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