Editoriale 20. Mestieri che cambiano

A volte ridiamo per paura che sia tutto vero e ridere ci regala quei pochi secondi per volare sulla distanza. Davanti alla foto di Cetto La Qualunque immagino l’impronta del suo corpo sulla poltrona nera, la vedo anche se sta seduto. Poggia le mani sui braccioli quasi a renderci impotenti di farlo alzare, ci dice […]

A volte ridiamo per paura che sia tutto vero e ridere ci regala quei pochi secondi per volare sulla distanza. Davanti alla foto di Cetto La Qualunque immagino l’impronta del suo corpo sulla poltrona nera, la vedo anche se sta seduto. Poggia le mani sui braccioli quasi a renderci impotenti di farlo alzare, ci dice che da lì non schioda.
Si stima che entro 5 anni una metà del nostro lavoro avverrà da postazioni remote ma le statistiche non si sbilanciano mai abbastanza per essere credibili, figuriamoci per essere verificabili: basterebbe un indizio in più e ci fideremmo. Invece restiamo nel dubbio di sapere se sarà proprio il nostro lavoro a trasformarsi o quello degli altri e così continuiamo a chiederci se il lavoro che facciamo ogni giorno ci piace o non ci piace, con quale vorremmo cambiarlo pur di non perdere benefit e comodità, quanto sarebbe diverso se riuscissimo a fare altro. Sono le domande di chi un lavoro ce l’ha e ha pure il lusso di prendersi il tempo di tante domande. In Italia, stando ai dati, ogni 88 persone che si fanno domande sul proprio lavoro, 12 fanno domande per trovare almeno uno.

Intanto i mestieri cambiano da soli perché non hanno la pazienza di aspettare i nostri comodi dubbi.
Il lavoro ha sbiadito la sua connotazione ideologica e si è fatto più individuale che collettivo. Meno gruppo e più singoli, complice anche la fisicità sempre più rarefatta con cui chiediamo di vivere ambienti e relazioni.

In questo numero di Senza Filtro abbiamo intravisto nel lavoro di oggi un elemento comune che taglia settori diversi e profili distanti: sono spariti appartenenza e senso comune, sono subentrati soggettività e condivisione a distanza. Abbiamo dichiarato al mondo che siamo persone ma lo abbiamo fatto con la sordina e per di più chiusi ognuno in una stanza. Nulla più della solitudine rischia di minare i mestieri del terzo millennio: non serve essere un professionista del digitale devoto al proprio schermo per fare questa ammissione di colpa.

Se ci lasciassero liberi di fare dove vogliamo ciò che dobbiamo, dicono vivremmo meglio. Lo credo, anzi lo spero, purché si tenga sempre a mente che il lavoro è una relazione almeno a due e che immaginarlo solo per noi, gestito solo da noi e nel luogo per noi sempre più comodo ci condanna al rischio di viverlo male. Anche gli uffici cambieranno – è inevitabile – perché siamo cambiati noi e la nostra idea di spazio.
Intorno alle lancette del tempo pare giocarsi la partita più seria: saperlo gestire è il primo pregio per non soccombere e approfittare dei momenti liberi è il secondo (ma vale più del primo se non prevale l’ansia).

Il tempo pesa su ogni mestiere, su alcuni addirittura incombe. Peter Gomez ci ha raccontato quanto il mestiere del cronista sia stato sacrificato dalla fretta dell’informazione che governa in superficie oltre che dal potere dei gruppi industriali. Tutto è cambiato, dai direttori del personale al personale, dagli imprenditori di stampo familiare ai nuovi modelli di internazionalizzazione che non rinunciano alle radici, dai miti della Scandinavia moderna ed efficiente ad una realtà protezionista e spaventata dal merito. Ci siamo spinti fino al necessario commento sui robot che inevitabilmente ci sostituiranno perché la forza lavoro decresce e perché, va detto, costano meno di noi.
Infine ci sono mestieri che non cambiano proprio, mettono solo il cerone ma lo stendono male: l’Italia ha troppi manager che, usciti dalle aziende, ci rientrano da consulenti col portafoglio dei contatti ancora sbottonato.

Cetto La Qualunque è ancora sul divano, se lo guardate bene. Incarna non solo il mestiere del politico che pare frenare ogni passo ma anche quella inerzia che ci sussurra di non muoverci per paura di perderci. Potremmo riderci su, ancora una volta e facendo finta di niente, pensare che tanto lui non siamo noi, o alzarci da quella pelle nera e correre il rischio che qualcun altro prenda il nostro posto. Potrebbe davvero valerne la pena.

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