Editoriale 36. Il costo dell’ignoranza

L’ignoranza, come la cultura, è una forma di investimento. C’è da fare poco gli ipocriti nel negare questa certezza perché basta semplicemente sostituire gli obiettivi per guardarsi intorno e riconoscere quanto sia vero e frequente. Per chi conosce un po’ Daniel Pennac, è nota la sua storia di studente non modello tratteggiata in Diario di […]

L’ignoranza, come la cultura, è una forma di investimento. C’è da fare poco gli ipocriti nel negare questa certezza perché basta semplicemente sostituire gli obiettivi per guardarsi intorno e riconoscere quanto sia vero e frequente.

Per chi conosce un po’ Daniel Pennac, è nota la sua storia di studente non modello tratteggiata in Diario di scuola fino poi però a crescere sul piano personale e professionale al punto da arrivare a insegnare francese per più di 25 anni in un liceo parigino. Di tutta la sua carriera, uno spunto generoso arriva dalla Lectio Magistralis Una lezione d’ignoranza che tenne nel marzo 2013 all’Università di Bologna in occasione del conferimento ad honorem della laurea in pedagogia. Un intervento semplice, che di certo non passerà alla storia, dal quale vale la pena estrarre una verità universale: il pericolo di incontrare in ogni fase della nostra vita quelli che lui chiama i “guardiani del tempio”.

Guardiano del tempio non è una funzione, è un atteggiamento, un ruolo. È la lettura ridotta a conoscenza, la conoscenza considerata una proprietà privata e il posto di custode garantito a vita. Il guardiano del tempio coltiva la certezza che oggi trasmettere non sia più possibile. 

E’ così, la chiusura è il vero nervo scoperto dell’ignoranza e di quei guardiani del tempio citati da Pennac sono piene anche le nostre aziende: sono quelli che nel pubblico si attaccano con le unghie alle rendite di posizione o quelli che nel privato riducono il valore dell’azienda a un’élite sempre troppo piccola.

E quanti errori a cascata vengono giù, invece, da una visione della cultura brutalmente ostentata. Tanto più ci si crede depositari della cultura, tanto più la si mette in mostra: sono i finti mecenati moderni e i loschi filantropi del benessere aziendale che diventano tali non tanto per ciò che fanno – è sempre nobile divulgare cultura – ma per chi lo fanno – vendono visibilità e marchio dimenticandosi di chi contribuisce ogni giorno a quel successo. Un atteggiamento che ricorda la legge amara e incontestabile del volontariato inconsapevole: tanto più è difficile risolvere i propri limiti personali e relazionali, tanto più facile diventa aiutare persone con difficoltà oggettive. Distogliere l’obiettivo meriterebbe il rango di disciplina olimpica se dipendesse dal numero di praticanti affezionati. Sono molti, e pure ingenti, i progetti e gli investimenti culturali di cui i dipendenti non sanno proprio nulla o da cui vengono volutamente esclusi; tutto si svuota, allora, perché senza osmosi alla fine si soffoca.

Esattamente il contrario dell’impostazione culturale impressa da Reinhold Würth all’impero fondato dal padre nel 1945, in Germania; per chi associa questo nome alla sola idea di utensili e ferramenta, varrebbe la pena godersi l’imminente decennale dello storico Art Forum Würth di Capena in provincia di Roma – uno dei 2 stabilimenti italiani, l’altro è a Egna in zona Bolzano – realizzato nel 2005 unitamente al progetto della sede italiana e inaugurato il 28 ottobre 2006: 550 metri quadrati di arte e di rispetto per chi lavora nello stabilimento e può goderne in totale libertà.

Che poi, anche sul tanto discusso benessere nei luoghi di lavoro, la sensazione è che parte della responsabilità sia anche di chi la rivendica ispirandosi a un vecchio stampo: dal basso si continua a richiedere una serie di benefit e di strumenti che poco elevano la persona e tanto la appiattiscono sul materiale. Serviranno pure auto e smartphone ma una biblioteca in azienda qualcuno l’ha mai anche solo chiesta? La produttività avrebbe da dire la sua.

Era il 1927 quando l’Università di Harvard inviò a Cicero il professor Elton Mayo, psicologo e sociologo australiano, per condurre studi fondamentali sul legame tra condizioni di lavoro e produttività. Quasi un secolo fa, insomma, gli americani già si ponevano la domanda che noi ci facciamo da poco tempo e senza neanche troppa convinzione.

Sarà che nella dimensione manageriale la cultura fa paura perché sposta i parametri ben oltre le prestazioni, per entrare poi nel personale. Tutti abbiamo contribuito, più o meno consciamente, a rendere elitario un concetto che si sarebbe prestato a ben altri sviluppi.

Potremmo ripartire da un’idea nuova di cultura in tanti campi ma riconquistare terreno sui luoghi di lavoro potrebbe essere la via migliore se non la più appagante. E’ ora di smetterla nel farci abbagliare dal tutto e subito perché la cultura ha tempi lunghi e senza ombra di dubbio vivrà più a lungo di noi. Trattiamola bene, quindi. Soprattutto la cultura non è un ascensore che porta da sopra e sotto e viceversa, dove i piani si illuminano in base a dove poggiamo il nostro dito. La cultura è più libera della nostra rigidità (non c’è solo l’arte, sia chiaro) e il suo significato nel mondo del lavoro deve sforare per forza le pareti dentro cui il lavoro si è rinchiuso per timidezza o negligenza: le buone relazioni, tanto per partire dalle priorità, sono l’investimento più redditizio che potremmo fare.

Che ci piaccia o no, sta a noi tirar fuori i valori individuali migliori affinché diventino di tutti. Diventare ogni giorno, ognuno di noi, una sorta di museo aperto e senza biglietto. Ce la sentiamo? Ormai va fatto se vogliamo salvare il sistema culturale del lavoro.

Il costo dell’ignoranza è visibile a tutti anche se continuiamo a far finta che non lo sia e a non scriverlo mai in chiaro.

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