Editoriale 38. Malati di lavoro

Se domani ci dicessero che nel nostro prossimo contratto di lavoro sono previste più ore di quanto pattuito, condizioni di sicurezza appena sufficienti, pessimi rapporti coi colleghi, quasi nessuno strumento di welfare e tanta ansia, nessuno accetterebbe perché intimorito dalla totale mancanza di motivazione e di benessere. E invece, statisticamente, la compagnia più frequente al lavoro è proprio […]

Se domani ci dicessero che nel nostro prossimo contratto di lavoro sono previste più ore di quanto pattuito, condizioni di sicurezza appena sufficienti, pessimi rapporti coi colleghi, quasi nessuno strumento di welfare e tanta ansia, nessuno accetterebbe perché intimorito dalla totale mancanza di motivazione e di benessere. E invece, statisticamente, la compagnia più frequente al lavoro è proprio quella totale mancanza di motivazione e di benessere: due valori che stanno sempre dalla stessa parte, quella dei buoni, mentre molti di noi pare preferiscano i peggiori.

Reuters Health ha battuto poche ore fa la notizia che chi dorme meno ore di quelle che lavora le sconterà tutte in vecchiaia – se ci arriva. La ricerca, con spunti da cogliere, poggia su uno studio condotto da studiosi finlandesi che hanno utilizzato i dati dell’Helsinki Businessmen Study per mappare lo stato di salute di oltre 3.000 uomini bianchi nati tra il 1919 e il 1934. Tutto partì nel 1974 quando più o meno la metà di chi si era sottoposto alla sperimentazione aveva circa cinquant’anni: chiesero loro informazioni sul proprio stato di salute, dalle abitudini di lavoro alle ore medie di sonno. Il sondaggio fu poi ripetuto nel 2000. Del gruppo originario, solo 352 di loro dichiararono di aver lavorato nella fase intensa della propria vita più di 50 ore a settimana, considerata come soglia di riferimento, e dopo aver incrociato i fattori “lungo lavoro”, “sonno breve” e “sonno normale” finalmente è arrivata la conferma della correlazione strettissima, col passare degli anni, tra i consumi eccessivi di energia non bilanciati da risposo e un critico stato di salute. Niente di nuovo sotto il letto, sia chiaro, ma vale sempre la pena sottolineare l’evidenza di un buon equilibrio nei nostri stili di vita, soprattutto quando a confermarlo è una ricerca con un follow-up di ben 26 anni.

Al lavoro ci si ammala, di lavoro ci si ammala: non siamo sempre noi a scegliere le preposizioni che ci cambiano la vita.

La maggior parte delle aziende italiane, secondo il Censis, preferisce pagare multe salate piuttosto che assumere persone con disabilità, come prevederebbe le legge. Purtroppo il dato è vero e ci sarebbe da arrossire così tanto da far sparire il tricolore. Le motivazioni più frequenti addotte? Timore di non saper gestire quei collaboratori, incapacità di valorizzarne la produttività, investimenti eccessivi in formazione interna. Comprensibile la consapevolezza, inaudita la fuga dalle responsabilità.

Mauro Felicori, ex Dirigente Servizio Cultura al Comune di Bologna e da poco più di un anno alla guida della Reggia di Caserta, sta invece dalla parte di chi il lavoro lo affronta di petto senza badare alle ore di riposo e pretende ritmo e produttività anche dai collaboratori: dai 490 mila visitatori del 2015 ai 650 mila di quest’anno. Più 30%, meno sonno. Se fosse per lui non dormirebbe proprio e quando il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, scherzando, gli ha detto che puntare ora a 1 milione di visite è un po’ poco, meglio due, Felicori ha risposto: “Mi faccia un contratto di otto anni, invece che di quattro, e vedrà”. La salute è un concetto personale, che diventa quasi secondario, quando in cabina di regia ci si siede la passione.

Queste elezioni presidenziali americane ci hanno resi un po’ guardoni, portandoci persino a conoscere il livello di colesterolo di Trump e il dosaggio dei farmaci in casa Clinton. Esagerato o no, di certo ci è servito a porci una domanda insolita: qual è lo stato di salute della responsabilità? Non so se in Italia ci sarebbe mai venuto in mente, fatte le dovute differenze. Ancora più inimmaginabile, poi, sarebbe trasferire la domanda nelle imprese: siamo così sicuri che non salterebbero le poltrone di presidenti e amministratori delegati ansiosi, sovrappeso e ipertesi se i loro dipendenti potessero votarne l’incarico in base a una bilancia o a una ricetta?

Proprio dagli Usa è da poco arrivata l’edizione 2015 del “Global Burden of Diseases, Injuries, and Risk Factors Study”, il maggiore studio epidemiologico internazionale a cura dell’Institute for Health Metrics and Evaluation di Seattle. Ci esprime un concetto molto chiaro: a livello globale, fra il 1980 e il 2015, la speranza di vita è aumentata di circa 10 anni (oggi è prossima ai 72 anni) e il miglioramento o il peggioramento della salute mondiale non sono risultati casuali ma frutto di scelte politiche e sanitarie di totale responsabilità. Vale per gli Stati, vale per le imprese, vale nelle case. A tutti i livelli decisionali, e in ogni contesto, sono sempre e solo persone – e non (ancora) i robot – a decidere se mettere una marcia, tirare un freno a mano o fare una retro. Lavorare non è un’azione isolata, lavorare è spingere un sistema di valori.

Per troppo tempo nelle aziende, dal pubblico al privato, si è confuso il significato di welfare con accezioni assistenzialiste e manovre di facciata ma qui ormai si parla di salute e non più di chirurgia estetica. Non basta più chiedersi che aria tira al lavoro, occorre finalmente decidere come curarlo.

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