Editoriale 50. Le regole del gioco

Londra, novembre 2016: Erri De Luca, pur non presentandosi personalmente ma facendolo ritirare dalla Feltrinelli, vince con il suo ultimo romanzo Il giorno prima della felicità l’edizione annuale del “Bad Sex in Fiction Award”, ormai storico premio assegnato dalla rivista letteraria britannica Literary Review. Per farla breve, ha vinto per la peggior scena di sesso descritta in un […]

Londra, novembre 2016: Erri De Luca, pur non presentandosi personalmente ma facendolo ritirare dalla Feltrinelli, vince con il suo ultimo romanzo Il giorno prima della felicità l’edizione annuale del “Bad Sex in Fiction Award”, ormai storico premio assegnato dalla rivista letteraria britannica Literary Review. Per farla breve, ha vinto per la peggior scena di sesso descritta in un romanzo e proprio per questo è stato premiato. Il suo commento è stato di lusinga nei confronti della inattesa pubblicità gratuita regalata al suo libro; nessuno, però, dubiterà del fatto che nel segreto dei suoi pensieri non debba aver trovato così gratificante la sensazione di aver vinto per essere stato il peggiore. Del resto la finalità del premio inglese è quella di invitare gli autori a non banalizzare temi essenziali; impossibile dargli torto se si legge con quanta dovizia di particolari e con quanta macchinosa forzatura De Luca abbia messo mano, a parole, su un momento tanto indecifrabile come il sesso. C’è una regola sacra che molti scrittori di romanzi dovrebbero rispettare, fosse anche per pura fede: fare un passo indietro davanti all’intimità di un altro, anche quando si tratta di una loro creazione letteraria. Chi tenta di descrivere minuziosamente cosa accade nella storia non si reputa abbastanza bravo da affidare il suo libro al lettore senza quel bisogno impellente di guidarlo passo passo per mostrargli a tutti i costi ciò che vede lui.

Scrivere è uno degli atti di libertà più alti, è fidarsi di te stesso e di chi, casualmente, finirà per leggerti.

Dall’altra parte della barricata letteraria se ne stanno gli aforisti, gente né troppo seria né troppo allegra, quelli che preferiscono la sintesi del fulmine ai lunghi tuoni del preavviso. Tanto ispirati alla sintesi che talvolta spariscono essi stessi: Laurent Gouze è uno di questi, scrittore francese di cui non si sa né luogo né data di nascita e al quale nessuno ha mai dedicato testi o recensioni. L’unico contatto con la realtà è il libro di aforismi pubblicato nel 2008 e titolato Numéros, i numéros sono 1500 pensieri a nutrire ben 200 pagine; sulla quarta di copertina appare la data del 4 febbraio di quell’anno come il giorno della sua morte improvvisa. Qualche libreria lo tiene ancora a catalogo ma il suo nome è sempre rimasto nell’ombra. Quando scrive Gouze, allora sì che senti il graffio; la sua regola è questa, dice la sua sul mondo e sulle guerre usando le parole quanto basta e non facendo colpo ricorrendo al numero ma al peso, parla di banche e di moralità ma non gli interessa di piacere. Lui scrive, non chiede altro, e si fida di chi lo leggerà. A certi ricchi, talvolta, non basta esserlo: vorrebbero anche che noi li credessimo onesti. 

Tra due poli estremi c’è sempre più libertà di scelta perché dove si allentano i confini c’è più spazio per appoggiarsi. Il mondo, però, ha bisogno di chi mette i piedi avanti e non le mani.

La regola è un tetto sicuro per chi ha bisogno di calpestare strade già tracciate senza troppe domande ma al tempo stesso è la base di ogni forma umana che potremmo chiamare democratica se riusciamo a tradurla col rispetto.

Il lavoro altro non è che un pendolo messo a tenere insieme gli estremi, a volte gli fa comodo il rigore e altre le maglie larghe. Ci si infilano in mezzo il qualunquismo della politica e i discorsi da bar fatti però in Parlamento, sulle regole ci campano da sempre la morale e l’etica perché un conto sono i principi generali di valore e un conto ne è l’applicazione pratica.

Quanto blablabla sulle regole in Italia.

Lavorare è diventato un mercato popolare in cui ognuno fa il prezzo che vuole, qualcuno lo grida più forte per coprire le voci degli altri ma i più onesti aspettano il cliente giusto per mostrargli la merce migliore, rischiando talvolta di non farsi trovare. Nel momento in cui si genera la regola più alta, da sotto ognuno si fa la regola più comoda e alla fine tende a rispettare solo quella tanto è convinto di farla sempre giusta.

Sono cerchi di un tronco visto in sezione, le regole.

E avanti così, potremmo dire all’infinito: noi in mezzo, con le nostre, e quelle degli altri o della società “civile” sempre un po’ più fuori, sempre un po’ più lontane da noi fino a non toccarci mai.

Recinti, binari, paletti, cerchi e chi più ne ha più ne scomodi di immagini con cui delimitare cosa si può e non si può fare, cosa si deve e cosa no. Niente come l’orologio interno batte, preciso, il proprio senso del confine.

A quale codice ispirarci nessuno ci vincola.

Possiamo vivere da aforisti: scrivere poco, centrare il senso delle cose, misurarci per misurare meglio il mondo.

Possiamo vivere da romanzieri: tendenzialmente scrivere tanto, sprecare un numero smisurato di parole per raccontare un gesto naturale come il sesso, dettagliare le storie per non lasciare nulla al caso.

Nel primo caso potrebbe attenderci l’ombra, nel secondo la gloria internazionale di un premio amaro.

Le regole del gioco sono le stesse da millenni però soltanto le azioni, mai le parole, sanno imboccare una strada.

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