Editoriale 52. Pendolari dentro

Prima che diventasse una rubrica di Michele Serra, l’amaca era un sogno oscillatorio. Il muoversi restando fermi, con la certezza che il movimento prima o poi avrebbe allentato il suo ritmo, fino a fermarsi, se nessuno gli avesse ridato una spinta. Nel dondolare basta un minimo gesto per riavviare il moto, anche solo un tocco sfiorato […]

Prima che diventasse una rubrica di Michele Serra, l’amaca era un sogno oscillatorio.

Il muoversi restando fermi, con la certezza che il movimento prima o poi avrebbe allentato il suo ritmo, fino a fermarsi, se nessuno gli avesse ridato una spinta. Nel dondolare basta un minimo gesto per riavviare il moto, anche solo un tocco sfiorato appena che parta da noi o che ci imprima qualcuno.

Per capire meglio come cambi costantemente la geografia che ci sta intorno, basta non prendere a riferimento soltanto noi stessi. Un esempio arriva dai flussi di persone in cerca di lavoro.

Dal 2008 al 2015, l’Italia si è vista scivolare di mano più di 800 mila residenti lavoratori; a dirla tutta, dentro quel numero sono 300 mila quelli che avevano inizialmente scelto di diventare italiani ma poi hanno preferito quella che gli esperti chiamano “emigrazione di ritorno”. I connazionali, ormai ex, si sono invece diretti verso Germania, Regno Unito e Francia; proprio in questo ordine, come nelle migliori barzellette.

Era il 2014 quando Enrico Moretti, economista quarantenne e docente all’Università di Berkeley, pubblicò La nuova geografia del lavoro riscuotendo un tale successo internazionale da far volgere lo sguardo degli americani una volta tanto verso un pensiero italiano. Dopo tre anni, in un’intervista a Repubblica, torna a far parlare di sé mentre manda al tappeto la solita storia dei robot che finiranno per sostituirci al lavoro: “Ogni posto creato nei settori più innovativi porta con sé, nella stessa zona, altri cinque posti nei servizi locali nati intorno alla nuova iniziativa”.

Addirittura uno a cinque, dice lui, per strafare con convinzione.

Un’analisi come la sua aiuta a spostare l’attenzione dall’apparente problema alla insperata risorsa; del resto non sono soltanto le persone a cambiare posizione ma anche le prospettive che si pongono in rottura col passato.

Oggi il lavoro non sta più dove lo abbiamo sempre cercato, è emigrato anche lui. Per gli ignavi da piatto pronto non è una buona notizia sapere che è il caso di rimappare se stessi e il mercato prima di lamentarsi ancora che il lavoro manca in assoluto. Il pendolarismo ha completamente cambiato faccia, si sono trasformate le mete, siamo persino scesi dal treno. Casa-lavoro-casa è una tratta che dobbiamo iniziare a cancellare velocemente se non vogliamo rischiare di isolarci e di interromperci una crescita. Il valore aggiunto del pendolo dopotutto sta in ciò che incrocia nell’oscillazione: se vi mettete ad osservarlo nel più totale silenzio mentre compie il suo giro, non potrete non sentirne il rumore mentre scambia parole con l’ossigeno che sta tagliando. Dovremmo replicare la stessa cosa nei nostri spostamenti di routine (da evitare come peste perché tra i primi responsabili dell’inaridimento personale). Se proprio costretti a non poter fare variazioni di percorso, almeno movimentiamolo con qualche imprevisto.

Invece, pur di non spostarci troppo dal posto di lavoro, continuiamo a reclamare servizi dentro le aziende oppure intorno, come se avere il maggior numero di comodità addosso al posto di lavoro ci migliorasse la vita: è solo un abbaglio, ci stanno fregando. Meglio sarebbe ridimensionare il concetto di lavoro e di orario per guadagnarne in benessere.

Pendolare ogni giorno, con lo stesso ritmo, alla lunga ci logora pericolosamente.

Lo confermano le big company che hanno messo il mondo intero in riga, Facebook in testa.

Come risolvere il problema del pendolarismo per le migliaia di dipendenti che non possono permettersi i prezzi degli affitti a Palo Alto e dintorni? Marc Zuckerberg se lo chiede da tempo perché le centinaia di navette che già da anni fanno la spola su strada non gli bastano più. La notizia è di oggi e si chiama Willow Campus: il piano di costruzione con cui Facebook ha dichiarato di voler investire a Menlo Park, area in cui risiede dal 2011 a circa 45 miglia da San Francisco. Saranno 162.000 metri quadrati di spazio per uffici e 125.000 metri quadrati di spazi commerciali oltre a 1.500 unità residenziali che Zuckerberg ha intenzione di rendere disponibili a chiunque, non solo ai suoi dipendenti: ben il 15% di quegli immobili sarebbero offerti a prezzi concorrenziali molto al di sotto dei tassi di mercato. Prime consegne nel 2021.

Dalle sue dichiarazioni si tratterà di un vero e proprio salto di qualità per il tenore di vita ma a guardarlo bene non sembra proprio. Non si può orbitare costantemente nell’area del pendolo perché si rischia l’ipnosi. Varrebbe la pena cercare una soluzione intermedia tra il casa-lavoro-casa proposto da Facebook e il garage a Palo Alto da 2 milioni di dollari.

E’ una similitudine facilmente trasferibile ovunque: da un lato la routine, dall’altro l’azzardo, in mezzo il buon senso.

Era la metà dell’Ottocento quando Foucault dimostrò la rotazione terrestre dentro la cupola del Pantheon di Parigi col suo cavo da 60 metri e la sfera attaccata da 28 kg. Le linee che il pendolo tracciava a terra raccontarono un mondo intero: dato che il piano di oscillazione libera non varia nel tempo, l’unica risposta possibile era che fosse il terreno sottostante a muoversi; a quel punto, il fisico francese capì anche che il dato andava messo in relazione con la latitudine.

In un sistema di inerzia, il pendolo avrebbe dovuto tracciare linee sempre nella stessa direzione ma non fu così; ad ogni latitudine terrestre il piano di oscillazione del pendolo ruota lentamente tranne che lungo la linea equatoriale.

Movimento e spazio, quindi.

Pur stando fermi qualcosa si muove, ma dipende dove stai.

Sarà il caso di chiederci onestamente in quale punto della nostra vita o del nostro lavoro ci troviamo e cosa ci aspettiamo dall’oscillazione prima di salire sul prossimo pendolo. E, non da ultimo, se preferiamo darci da soli la spinta necessaria a dare il ritmo o se delegarla agli altri.

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