Fallire è un po’ morire. E un po’ no.

Vuoi per l’avanzare dell’età, vuoi perché il contesto sociale famigliare mediatico ti consiglia ripetutamente di porti obiettivi con cui misurarti ed essere misurato, vuoi ancora perché la poetica dell’errore ha preso piede in tutti i filoni della formazione manageriale, mi sono trovato di recente a riflettere sul tema del fallimento. Non del fallimento cattivo, intendiamoci, […]

Vuoi per l’avanzare dell’età, vuoi perché il contesto sociale famigliare mediatico ti consiglia ripetutamente di porti obiettivi con cui misurarti ed essere misurato, vuoi ancora perché la poetica dell’errore ha preso piede in tutti i filoni della formazione manageriale, mi sono trovato di recente a riflettere sul tema del fallimento.
Non del fallimento cattivo, intendiamoci, ma di quello buono. Un po’ come la storia del colesterolo.
Ho messo in fila tutte le cose in cui non sono riuscito, marchiandole come fallimento.
Viste tutte insieme, mi sono chiesto come facessi a essere ancora qui.
Dopo di che mi sono detto che, forse, sono qui proprio grazie a quei fallimenti.
Ho messo in ordine i ragionamenti suddividendoli in capitoli, che vado di seguito a srotolare.

1. Incertezza

Secondo Bauman: «È l’habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire a essa sia il motore delle attività umane». Una condizione esistenziale, non evitabile.
Tanto che Voltaire, a sua volta, rincara la dose con un perentorio: «L’incertezza è una posizione scomoda. Ma la certezza è una posiziona assurda». Cosa ci possiamo fare? Probabilmente poco più di prenderne atto e, soprattutto, non subire questa nostra condizione. Possiamo rincorrere certezze, illuderci che ogni nostra azione è un tassello verso la tranquillità, per poi crollare al primo Cigno nero (per stare con Taleb).
Oppure possiamo danzare con l’incertezza, mettendo in conto che questa ci farà sgambetti, ma che noi sapremo non solo rialzarci, ma fortificarci. Proprio grazie ai fallimenti, non nonostante loro.

2. Non c’è successo senza fallimento

I nostri fallimenti e i nostri errori sono infatti le più preziose fonti di informazione: sono vere e proprie lezioni, vissute in prima persona, sulla nostra pelle. E nulla insegna come l’esperienza diretta.
Fare i conti con i fallimenti significa metterli in preventivo senza giudizi morali preconcetti, ma soprattutto senza paura.
O meglio, con la paura che ci permette di essere vigili e di farci meno male possibile, ma con il coraggio di volerla affrontare.
Il valore dei fallimenti si riconosce a posteriori, proprio come i punti da connettere di cui parlava Steve Jobs: guardiamoci indietro e giudichiamo la forza costruttrice dei nostri errori, chiediamoci come hanno contribuito a renderci più forti dopo ogni volta. Per stare con Thomas Edison: «Non ho fallito. Ho solamente trovato 10.000 metodi che non hanno funzionato».

3. Non c’è fallimento senza successo

Apparentemente è un paradosso, ma il fallimento si misura solo in relazione a un successo definito.
Il fallimento pare quindi descritto per antitesi: non esiste, se non in funzione di una analoga definizione di successo. D’altronde, l’accoppiata successo – insuccesso è eloquente: insuccesso è qualcosa che non è successo, ma che ci auspicavamo. Mentre non si parla mai di infallimento. La soluzione parrebbe a portata di mano: non poniamoci obiettivi, non falliremo. Ma fatti non fummo a viver come bruti.
Dice Jeff Bezos: «Sapevo che se avessi fallito non lo avrei rimpianto. Ciò che avrei rimpianto è il non averci provato».
Quindi, se vogliamo, in quanto non bruti, raggiungere un obiettivo di successo, è necessario che vediamo il fallimento come un suo mattone costituivo.

4. Le narrazioni del fallimento

Narrare il fallimento, a sé e agli altri, aiuta.
Non è mai piacevole fallire, anche se lo abbiamo messo in conto. Narrare gli insuccessi è il modo in cui le sensazioni escono dalla sfera emotiva e prendono la forma di informazioni, che possono così essere usate come vaccino per ulteriori fallimenti simili – e predisporre il nostro organismo a fallimenti sempre più sontuosi.
Peraltro, le due narrazioni, a sé e agli altri, non devono necessariamente coincidere: usiamo il fallimento in modo strumentale senza remore e senza vergogna, ma cerchiamo di farlo restando sempre intimamente onesti con noi stessi. Altrimenti non stiamo facendo legna (vedere il capitolo successivo).

5. Fare legna

“Il destino fa fuoco con la legna che c’è”, ha scritto Alessandro Baricco.
Il nostro successo, qualunque ne sia la propria personale definizione, è come un fuoco che sarà tanto più alto, intenso e caloroso quanta più legna avremo raccolto nel corso del nostro camminare nel bosco della vita.
Ogni insuccesso è un ciocco; non bagniamolo con inutili lacrime, ma proteggiamolo e facciamolo seccare al sole, per poi scaldarci intorno al fuoco, nel bel mezzo dei gelidi inverni. Con l’occasione, bruceremo anche le metafore di bassa lega, come queste che ho appena usato.

6. Brucofarfallismo

Quel che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla.
È un vero insuccesso, la fine del bruco? A giudicare da quello che ne esce, parrebbe di no.
Rimanere in uno stato di bruchismo consapevole può essere la chiave per vivere in armonia con la nostra naturale condizione di incertezza, in una perenne trasformazione in bruchi più verdi e farfalle più colorate.
Perché sono convinto che ciò che il Sommo volesse veramente intendere era:
Fatti foste a viver come bruchi.
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