… e il food delivery ci ha provato anche con i contributi.

Il Tribunale di Milano commissiona l’ennesima multa all’indirizzo delle piattaforme di food delivery. Deliveroo e Uber Eats tenute a risarcire i riders dei contributi mai versati.

22.10.2023
Un rider di Deliveroo al lavoro, in bicicletta

Non sono stati i consumatori (sempre) più consapevoli, né tantomeno i sindacati che solo sei mesi fa accettavano di far sponsorizzare il loro Concertone del Primo Maggio (quello in cui si parla di “dignità del lavoro”) dalle principali piattaforme di food delivery; l’ennesima stoccata agli impuniti Deliveroo e Uber Eats l’hanno sferrata ancora una volta i tribunali.

Una decisione probabilmente non inattesa, visto che qualche mese fa il responsabile della comunicazione di Uber Eats aveva anticipato il blocco delle consegne entro la fine di luglio poiché “la crescita in Italia non è in linea con le aspettative“.

O forse intendeva dire che in Italia il supporto politico e lobbystico con cui queste piattaforme avevano operato fino ad oggi iniziava a scricchiolare, anche in considerazione di un periodo di operatività che non può più godere degli incentivi fiscali che si dedicano alle startup.

I rider non sono liberi professionisti

L’ispettorato già nel 2021 aveva ribadito che i rider, per le loro mansioni, sono lavoratorieterodirettie non collaboratori occasionali, e dunque i ricorsi furono dichiarati “palesemente” infondati.

È la stessa causale con cui ieri il Tribunale di Milano ha comminato una sanzione a seguito di un’ispezione dell’INPS, con la quale l’Istituto ha emesso due distinti verbali di accertamento all’indirizzo di  Deliveroo e Uber Eats (che nel frattempo ha lasciato l’Italia) per il mancato versamento alla gestione lavoratori dipendenti dei contributi relativi ai collaboratori; versamento che non era stato fatto in quanto i rider erano inquadrati come lavoratori autonomi (con applicazione della relativa disciplina previdenziale).

Il Tribunale rileva che diversi indici fanno rientrare la prestazione tra le forme di collaborazione definite dal Dlgs 81/2015 (Jobs Act, addirittura!) come “etero-organizzate”.

Ai rider che hanno lavorato per Deliveroo, dunque, dal “gennaio 2016 al 31 ottobre del 2020”, va applicata, scrive il giudice, “la disciplina del lavoro subordinato” con conseguente “obbligazione per contributi, interessi e sanzioni nei rapporti con l’INPS e per premi nei rapporti con l’INAIL” per “l’orario effettivamente svolto dai collaboratori, da determinarsi dal Login fino al Logout dalla piattaforma per ogni singolo giorno lavorativo e con versamenti da effettuarsi nella Gestione Dipendenti, con le aliquote contributive per il lavoro subordinato, per quanto riguarda il debito nei confronti dell’INPS”. Sulla stessa linea l’altra sentenza sul caso Uber, che riguarda, però, un periodo più limitato che va “dal gennaio 2020 al 31 ottobre 2020”.

Ora l’INPS dovrà calcolare l’esatta quota di contributi per entrambe le aziende.

Salute, sicurezza e sanificazione. Sempre fuori regola.

Non è la prima volta che i tribunali esprimono il loro disappunto (per dirla con una metafora) sull’operato degli aderenti ad Assodelivery (Deliveroo, Glovo, Uber Eats, a cui si aggiungono FoodtoGo e Social Food, di cui in realtà si sente parlare molto di meno): abuso dell’algoritmo, violazione dei dati dei rider, mancanza di presidi di sicurezza (mascherine e disinfettanti) durante il lockdown, e più volte anche in merito all’incongruenza degli inquadramenti come liberi professionisti, quando invece è evidente che i rider facciano un lavoro meglio inquadrabile con lo status di dipendenti diretti, che hanno più volte equiparato il food delivery al cottimo e al sistema del caporalato.

Il tutto corredato da quel fattaccio brutto di un contratto collettivo definito “pirata”, redatto e firmato nel corso di una notte con il benestare di UGL, sindacato minoritario e scarsamente rappresentativo, poi sconfessato da tutti i sindacati e dal governo stesso perché antisindacale.

Sebbene presentato in pompa magna come “un grande successo” da Matteo Sarzana di Deliveroo. Bella figura.

A febbraio 2021  la Procura di Milano aveva annunciato una sanzione da 733 milioni per Glovo, Just Eat, Uber e Deliveroo, finite al centro dell’inchiesta “pilota” della Procura di Milano sulle condizioni di lavoro e di sicurezza dei rider. Da quell’indagine si era riscontrato come per questi lavoratori mancasse la formazione sulla sicurezza, non venissero consegnati loro caschi, giacche antipioggia e mascherine, non si facessero le visite mediche e le loro biciclette non avessero nessuna forma di controllo di sicurezza.

Le ammende furono poi ridotte alla somma ridicola di 90.000 euro a piattaforma, giustificate dal fatto che queste nel frattempo avevano avviato “un percorso di messa in regola che prevedeva investimenti”. Lascia perplessi l’atteggiamento delle istituzioni, che in nessun’altra situazione analoga avrebbero permesso ad un imprenditore, retroattivamente, di usufruire di uno sconto su un’ammenda a fronte di “investimenti” che fanno parte delle regole del gioco, non rispettate.

Così come lascia altrettanto perplessi l’esito della constatazione, se ancora oggi per le strade si vedono rider senza dispositivi di sicurezza e ulteriori indagini pubbliche e private hanno rilevato non solo un’evidente sistema di subappalti dei device, che fa sì che venga meno anche la sicurezza dei clienti che ricevono in casa fattorini diversi da quelli registrati dalle piattaforme, ma anche gravi carenze dal punto di vista della sanificazione dei contenitori in cui viene trasportato il cibo, per cui ancora una volta le piattaforme scaricano le responsabilità sui lavoratori.

La storia si ripete

Con ogni evidenza, essendo stati graziati una volta, Deliveroo & Co. hanno pensato di essere impermeabili alle regole.

Secondo il Tribunale, l’unico spazio di scelta discrezionale che viene riservato ai rider è la decisione se svolgere o no l’attività: una volta presa questa decisione, l’esecuzione delle consegne è, secondo la sentenza, organizzata del tutto dal committente (tanto che si esclude anche la possibilità di inquadrare la fattispecie tra le collaborazioni occasionali).

Prendo in prestito da un sito di consulenza del lavoro del gruppo Sole24Ore che ha commentato il fatto, per coloro che sono più avvezzi alla materia:

La conseguenza che fa discendere il Tribunale di Milano da tale ragionamento è coerente con l’orientamento ormai consolidato della Cassazione in tema di collaborazioni etero-organizzate: l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato.

Applicazione che, si legge nelle motivazioni redatte, si estende alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato ‘nella sua interezza’, non esistendo motivi, né testuali, né logici, per escludere da tale ambito la normativa previdenziale.

Unica eccezione a tale estensione riguarda le norme che sono incompatibili con la collaborazione; tra queste, la sentenza individua l’articolo 10, comma 1, del Dlgs 81/2015 nella parte in cui prevede che in mancanza di prova di un contratto a tempo parziale, il rapporto tra le parti deve considerarsi a tempo pieno. L’applicazione di tale regola viene considerata incompatibile con la prestazione dei rider in quanto il collaboratore mantiene un’ampia autonomia almeno nella fase genetica del rapporto, potendo scegliere se lavorare o meno e in quali periodi.”

Conclusioni

Dalla combinazione di questi elementi il Tribunale di Milano trae delle conclusioni molto rilevanti.

La prima è che ai rider, anche se inquadrati come collaboratori, si applica la disciplina previdenziale dei lavoratori dipendenti.

La seconda è che i contributi previdenziali devono essere pagati solo per i periodi in cui è accertato lo svolgimento dell’attività (mediante il login e il successivo logout dall’app fornita dalla Società), non potendosi estendere l’obbligo contributivo rispetto a periodi per i quali non sussiste la prova dello svolgimento dell’attività.

La sentenza evidenzia, infine, che l’applicazione automatica delle regole del lavoro dipendente non si sarebbe verificata qualora il rapporto di collaborazione fosse rientrato nel campo di applicazione degli accordi collettivi previsti dallo stesso articolo 2 del Dlgs 81/2015, al comma 2: tali accordi, secondo il Tribunale, impediscono il verificarsi del meccanismo dell’estensione automatica delle regole della subordinazione anche rispetto alla disciplina previdenziale. E qui, mi viene da dire, c’è forse la gabola con cui Just Eat ha risolto il suo problema, dichiarando sì di aver assunto gran parte dei suoi rider, i cui contratti però non sono full time, lasciando molte ore “libere” dal servizio.

Che però i rider, nella necessità di portare a casa uno stipendio decente, impiegano lavorando per le altre piattaforme.

Considerando che se le piattaforme di food delivery hanno avuto la possibilità di operare nel totale vuoto normativo è anche grazie a un lavoro di lobby (suggerisco sempre di rivedere la puntata di report dedicata ai rider, in cui gli “impresari” – come li chiamo io – di Assodelivery venivano rincorsi dal giornalista all’uscita di un’udienza parlamentare, e una volta raggiunti negavano le loro identità fingendosi “altri”) in cui politica, sindacati e Confindustria hanno le loro responsabilità, la conclusione del Sole24Ore fa sorridere:

“Un’indicazione importante, che sembra tracciare anche un possibile percorso per dare un assetto stabile a una vicenda che, con cadenza periodica, è interessata da scosse giudiziarie.”

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