Formatori all’esame di coscienza

“Il capitale intellettuale e il valore della formazione sono al centro della strategia d’impresa”. “Investire in apprendimento è oggi una sfida per un numero sempre più elevato di persone”. Non c’è dubbio, in materia di formazione: la retorica e la convinzione pare non manchino. Secondo una ricerca condotta da Josh Bersin dalla società Deloitte, nel […]

“Il capitale intellettuale e il valore della formazione sono al centro della strategia d’impresa”.
“Investire in apprendimento è oggi una sfida per un numero sempre più elevato di persone”.

Non c’è dubbio, in materia di formazione: la retorica e la convinzione pare non manchino.
Secondo una ricerca condotta da Josh Bersin dalla società Deloitte, nel 2014, a livello mondiale sono stati spesi circa 140 miliardi di dollari, con un incremento annuo del 10% nell’ultimo quinquennio.
Se l’investire nello sviluppo delle competenze è un riflesso del benessere di un’azienda, il panorama sembrerebbe confortante.
In pratica, nella mia esperienza, ci sono però due grossi nodi sui quali riflettere:

1. i criteri di scelta dei piani formativi;
2. le ricadute della formazione in termini di apprendimento e trasferimento nella realtà lavorativa delle competenze (auspicabilmente) acquisite.

Come scegliere la formazione

Parto dal primo: perché fare formazione e come sceglierla.
Fuori dalla retorica da convegno, l’investimento formativo è spesso episodico, poco consapevole e poco mirato. Una veloce “passata” ogni tanto, perché non si può non darla, già sapendo che non sarà risolutiva: io la chiamo “saponata formativa”.
Non si è ancora ben compreso che la formazione aziendale è un’attività fruttuosa solo se ben contestualizzata, adottata in modo programmatico e praticata con continuità: al pari di un allenamento sportivo o di una dieta alimentare.
Il problema è che essa è, da molti, considerata non un investimento strategico in risorse immateriali, ma un costo dai non chiari e comunque lenti ritorni. Ne risulta una domanda di mercato contraddittoria, disordinata, di non facile interpretazione, soprattutto per quanto riguarda le competenze di comportamento organizzativo.
Come mai la mitica formazione passa così facilmente dalle stelle teoriche alle stalle pratiche?
Per motivo di cattivi approcci, prima e dopo il momento formativo.
Eccoli tratteggiati di seguito.

La richiesta di novità (ovvero la “formazione atelier”): la committenza sembra interessarsi più alla novità dei contenuti che alla effettiva rispondenza ai bisogni dell’organizzazione. Alcuni clienti fanno formazione “solo se c’è qualcosa di nuovo”. D’accordo sulla curiosità culturale, tuttavia la frequente richiesta di novità sottende una sostanziale ingenuità. Ci sono temi/problemi di organizzazione e formazione tutt’altro che nuovi, ma complessi, importanti, radicati e irrisolti che richiedono approfondimento, reiterazione, aggiornamento incrementale, non solo e non tanto “fresca novità”. Occorre essere consapevoli: l’obiettivo prioritario è stupire i discenti o produrre apprendimento? E il post-training, se c’è, in cosa consiste? Deve anche questo essere innovativo? Vabbè non lo facciamo tanto non c’è budget.

La richiesta di interattività e divertimento (ovvero la “formazione che bello, è stato cosi divertente”): la committenza richiede che l’intervento formativo sia “movimentato” e che faccia fare “qualcosa di carino”, anche perché il personale “ha bisogno di rilassarsi”. Certamente tutto ciò che risulta noioso e statico non favorisce la motivazione ad apprendere, d’altro lato imparare richiede anche applicazione, sforzo e ripetute riflessioni. Tutto ciò non necessariamente si sposa ad attività movimentate e divertenti e con l’eliminazione sistematica della lezione frontale (ingiustamente considerata una “maledizione formativa”). E il post-training, se c’è, in cosa consiste? Deve anche questo essere spassoso? Vabbè non lo facciamo tanto non c’è budget.

La richiesta di brevità e occasionalità (ovvero la “formazione piuttosto che niente”): il committente chiede interventi formativi occasionali e di breve durata, “magari il sabato mattina”. Ciò evidenzia alcune lacune di fondo: la formazione è ritenuta marginale e/o si crede che i cambiamenti nei comportamenti e atteggiamenti avvengano per magia. È come se bastasse leggere un libro di nuoto per imparare a nuotare. Gli interventi formativi brevi e occasionali sono utili unicamente per sensibilizzare le persone sui temi trattati. Non comprendere questo significa nutrire aspettative taumaturgiche invariabilmente destinate alla delusione. E il post-training, se c’è, in cosa consiste? Deve anche questo essere rapidissimo ed episodico? Vabbe’ non lo facciamo tanto non c’è budget.

La richiesta incongruente con la cultura aziendale (ovvero la “formazione su come bisognerebbe”): ad esempio, fare training su self empowerment e delega quando l’organizzazione è fortemente gerarchica e popolata da capi accentratori. Non solo non serve, è dannosa: i partecipanti si chiedono, come minimo, perché mai devono vestire i panni dei “cornuti e bastonati” e, giustamente, escono dal corso arrabbiati. E il post-training, se c’è, in cosa consiste? Deve anche questo “fare finta che”? Vabbè non lo facciamo tanto non c’è budget.

Gli effetti della formazione

Eccoci al secondo nodo: i meccanismi e l’effettività dell’apprendimento.
Tra intervento formativo e apprendimento non sussiste necessariamente una riconoscibile corrispondenza e tanti percorsi formativi (anche se innovativi nelle tecniche e dotati di suggestive denominazioni) sembrano avere un risultato opaco ed effimero.
L’arsenale metodologico delle strategie e delle tecniche didattiche è vastissimo.
Ho tuttavia l’impressione che esso si scontri con un apparentemente elementare vincolo applicativo: come le persone pensano e agiscono durante e soprattutto dopo l’esperienza di formazione.
Spessissimo solo per il fatto di non aver preso qualche appunto finalizzato, i discenti appena usciti “dall’aula” non sono neanche in grado di riformulare con chiarezza concettuale e intenzionalità operativa gli aspetti salienti del tema affrontato.
Men che meno sono motivati e capaci di operare un travaso all’interno della loro realtà lavorativa, di quanto (non) hanno appreso.

È colpa dei formatori se la formazione non funziona?

È un po’colpa dei formatori, è un po’colpa dei discenti.
Cosa, in pratica, fa il formatore per guidare, favorire, esaminare, modificare e consolidare la produzione di senso da parte dei discenti? Un formatore che, ad esempio, non curi la qualità/quantità della presa di appunti dei discenti, può dare quasi per certo che gran parte del messaggio andrà dispersa, anche se alla fine del corso verrà consegnata una coloratissima dispensa.

Le persone possono giungere nel setting formativo impreparate e demotivate, spesso senza neanche rendersi conto che, tornando sull’esempio precedente, se non si prendono e rielaborano gli appunti non si registra mentalmente quasi nulla e si pongono da subito le basi per il fallimento dei processi attentivi, di significazione e di memorizzazione.

Accade di frequente che i pigri, nel prendere appunti e nel farsi coinvolgere, siano poi coloro che lamentano la difficoltà di applicazione di quello che si è trattato in aula.

A questo si aggiunge che per numerosi discenti la formazione è una riedizione di poco felici esperienze scolastiche. Per molti, studiare e imparare si identifica con il soffrire e l’essere esaminati.
Ma la questione più scottante riguarda la notevole inconsapevolezza che caratterizza le persone rispetto al “come e quando si impara”.

È sempre viva la speranza/pretesa di incontrare un docente magico (e a buon mercato) che riveli un paio di trucchi definitivi, facili, non faticosi e di sicuro effetto per trasformarsi, immediatamente dopo la fine del corso, in un leader, un negoziatore, un team player, un oratore, un project manager o altro, a seconda dell’argomento del training.

La richiesta (anche se negata a parole) è quella di una sorta di magia didattica a tema, grazie alla quale “diventare bravi” semplicemente sentendo la voce del trainer, guardando le sue slide e facendo una veloce simulazione (veloce, perché se lunga ci si stanca).

Un po’ come se, guardando le fotografie di un atleta muscoloso, ci svegliassimo la mattina dopo con i muscoli altrettanto sviluppati o bastasse andare in palestra un pomeriggio per farsi il “fisico”.

Tutti affermano di rendersi conto che ciò non è possibile per la muscolatura, così come per l’apprendimento di uno sport.
Per il comportamento organizzativo, invece, chissà perché, la recondita speranza rimane quella del miracolo: parliamo di leadership e io divento un leader. E lo divento secondo due clausole formative implicite: in fretta e senza dover fare particolare fatica. Altrimenti significa che il corso non serve!
Basterebbe ricordarsi come abbiamo fatto a imparare a guidare l’auto e tutto andrebbe a posto.

Basterebbe tenere presente che la vera sfida è disciplinare se stessi per mettere sistematicamente in pratica le «buone pratiche» messe a fuoco nel training, nonostante le abitudini, la fatica iniziale, e le pressioni del lavoro quotidiano. E che nessuno lo può fare al nostro posto.

Conclusioni

I committenti e i formatori si facciano un esame di coscienza rispetto al perché e come hanno richiesto, progettato ed erogato i percorsi di apprendimento.

L’invito è un riesame metodologico dei progetti di formazione (obiettivi, articolazione, durata), delle strategie e delle tecniche didattiche, orientato a sviluppare nei discenti una capacità autonoma e situazionale di apprendimento e applicazione.
Gli utenti della formazione smettano di credere che imparare, pensare, applicare e continuare a pensare siano conseguenze automatiche dell’attività di formazione e che non richiedano intenzionalità, responsabilità personale e impegno nel tempo.

Per quanto abile possa essere il formatore, rimane una verità: si può insegnare solo a chi vuole imparare davvero.

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