Ogni freelance è un pezzo unico

Dopo parecchi anni di militanza tra le sue fila, ho imparato che se c’è qualcuno impossibile da definire, quello è il freelance. Non avendo connotati obbligatoriamente comuni ad altri, come avviene ad esempio tra colleghi di una stessa azienda, ogni freelance è un pezzo originale che fa del distinguersi una ragione di sopravvivenza sul mercato. […]

Dopo parecchi anni di militanza tra le sue fila, ho imparato che se c’è qualcuno impossibile da definire, quello è il freelance. Non avendo connotati obbligatoriamente comuni ad altri, come avviene ad esempio tra colleghi di una stessa azienda, ogni freelance è un pezzo originale che fa del distinguersi una ragione di sopravvivenza sul mercato. Ognuno ha la sua definizione e le sue idee riguardo alla propria condizione, fieramente difese, perché con le idee quelli come me ci campano. In particolare la categoria dei creativi, copy, designer, strategist, social media manager, abituati per lavoro a plasmare le opinioni perfino degli altri, sono autarchici altamente individualisti ai quali ritrovarsi sotto lo stesso cappello con estranei viene in odio facilmente.

Il freelance è uno spirito libero, che preferisce agire in prima persona senza chiedere nulla a nessuno. Molti non accettano rappresentanza, niente porta voce. Fa di se’ una narrazione che va dall’epico al lamentoso, spesso alimentando gli stereotipi che poi i media sputano fuori a casaccio quando si tratta di parlare di loro. Naturalmente i media, soprattutto la nostra TV, preferiscono di gran lunga stereotipi sofferenti e polemici, tipo “il precario” o “la falsa partita iva”, con i quali costruiscono servizi basati sulla testimonianza del (per loro) caso umano.

Questi modelli hanno un sottinteso forte, sempre quello: l’aspirazione al lavoro dipendente. Non c’è la dignità del lavoro professionale indipendente in questi racconti, esiste solo una forma di fatica minore e antagonista a quella “vera”, il lavoro dipendente. Al quale giustamente tutto deve tendere ed essere ricondotto.

E così i freelance si trovano spesso a scegliere un altro stereotipo, però positivo e che liberi dalla sfiga: “l’imprenditore di te stesso”. So bene che in tanti ne sono innamorati e di sicuro ci sono molti aspetti che confermano la bontà di questa similitudine: il freelance e l’imprenditore hanno in comune uno spirito spinto verso il DIY (do it yourself), si presentano entrambi sul mercato e lavorano con le loro idee, vogliono o devono prestare sempre attenzione all’innovazione. Peccato che nei fatti i due facciano un lavoro diverso.

L’imprenditore offre sul mercato un prodotto o un servizio e per farlo ha quasi sempre bisogno di generare lavoro dipendente (è spesso il cliente del freelance). Può anche iniziare un progetto d’impresa lavorando da solo o con poco aiuto, ma il suo obiettivo è la crescita e nel suo orizzonte c’è il coinvolgimento di altre persone che portino avanti il lavoro. Il suo compito, a regime, riguarda parecchio la gestione delle sue risorse umane, a vari livelli, e dalle quali dipende, si sa, il successo dell’impresa.

Nei momenti di picco della mia storia lavorativa (crescita forte e condizioni esterne favorevoli) c’è sempre stato chi mi consigliava di aprire una società e convertire la mia attività individuale, leggi assumere. Io non me la sono mai sentita proprio per via della responsabilità che questo passo avrebbe comportato verso terzi. Perché il freelance vive nel paradigma opposto all’imprenditore: non ha responsabilità verso nessuno, è libero, non dipende da alcuno che stia sopra né sotto la sua capoccia. Uno può sentirsi come vuole, anche imprenditore se gli piace, però deve sapere che a livello fiscale, amministrativo e burocratico le cose stanno in modo molto diverso: per lo Stato il freelance e l’imprenditore non sono mai la stessa persona.

A metterlo bene in chiaro – per una volta –  ci pensa un disegno di legge tracciato quest’anno apposta per noi: lo Statuto dei Lavoratori Autonomi. L’articolo 1 ci dice che è rivolto a tutti i professionisti autonomi e che sono invece esclusi gli imprenditori, cioè tutti gli iscritti al registro imprese con una società o con una ditta individuale (artigiani, commercianti, agricoltori). Una netta distinzione. E siccome siamo pieni di norme ambigue fatte apposta per gli spiragli interpretativi e clausole che si scoprono facoltative, un impianto tutto per noi che “prenda posizione” e tagli la testa al toro su questioni finora controverse appare già una rivoluzione.

Lo stesso articolo 1 non fa invece distinzione tra chi ha un ordine oppure no, tra vere e finte partite iva, tra mono e pluri committenti: tutti sulla stessa barca, è tutto lavoro autonomo e sarà normato nello stesso modo. Anche questa è una brillante novità che serve poi a uscire, finalmente, dal solito schema del lavoro (economicamente) dipendente come punto di riferimento, anche giuridico, per ogni ragionamento sul tema.

Lo Statuto dei freelance, chiamiamolo audacemente così, dà risalto e importanza al lavoro professionale autonomo, com’è giusto che sia dato che siamo circa due milioni e produciamo più del 10% del nostro PIL. Ci proteggerà meglio dai ritardi nei pagamenti (mora vi colga!), udite udite anche verso la PA. Il rifiuto del committente a stipulare un contratto in forma scritta sarà considerato abusivo e lo stesso non potrà modificarne unilateralmente le condizioni. Addirittura non potranno essere valide deroghe ai tempi di pagamento superiori a 60 giorni, anche se accettate dal fornitore.

Diciamo che starà a noi accorgerci dell’esistenza di queste norme, dunque avvalercene e sventolarle all’attenzione di chi non le conosce, perché non cadano “in prescrizione” come alcune volte, ahimè, è pure accaduto. La non applicazione uccide.

Buone nuove anche in merito all’aggiornamento professionale, la palestra anti ossidante e corroborante che per un freelance è fondamentale: le spese per la formazione saranno deducibili al 100%. Sul fronte welfare viene abolito l’obbligo all’astensione dal lavoro per le freelance in gravidanza e vengono estesi i congedi parentali da tre a sei mesi, anche per i papà freelance. Saremo tutelati meglio anche nella malattia: decade per due anni l’obbligo di versare i contributi Inps in caso di grave malattia (oncologica o invalidante), una battaglia combattuta con grande determinazione da Daniela Fregosi, una freelance verso cui abbiamo tutti un debito di riconoscenza, anche se tanti neppure lo sanno; migliora l’indennità per la degenza domiciliare e sale quella per la degenza ospedaliera. Insomma traguardi inauditi finora per i lavoratori indipendenti.

Infine un altro riconoscimento: l’equiparazione alle imprese nell’accesso ai bandi finanziati con fondi europei, una situazione che ci ha sempre visti immotivatamente discriminati, a dire il vero una ratifica di direttive comunitarie, che comunque chiude in bellezza questo piccolo dispaccio.

Ci sono ancora limiti nel testo e miglioramenti a cui aspirare, ma la svolta di sicuro c’è stata. Considerando che il freelance è sempre quello di cui sopra, che preferisce non chiedere niente a nessuno – salvo poi ritrovarsi alla canna del gas quando un conflitto col cliente finisce in tribunale o quando per disgrazia si ammala per mesi – c’è da riflettere sul perché di questa attenzione, mai manifestata così pienamente, da parte dello Stato. Certo c’è da non dimenticare mai l’azione egregia di alcune associazioni indipendenti e di singole battaglie.

Ma in generale sappiamo tutti che il lavoro ha subìto in pochi anni cambiamenti radicali e probabilmente i tempi sono maturi perfino per il nostro lentissimo governo (la Spagna, prima in Europa, si è dotata di uno statuto del lavoro autonomo nel 2007, i paesi nord europei hanno prassi e normative per cui quasi non ne hanno bisogno).

Le ricerche in questo frangente parlano chiaro: i lavoratori autonomi aumentano in tutto il mondo. Negli States è autonomo un lavoratore su cinque, in Italia quasi uno su quattro. The Economist, dopo aver dedicato la copertina del primo numero già del 2015 ai freelance, diceva che siamo «la nuova forza lavoro della on-demand economy», cioè di un sistema nel quale le persone vengono impiegate solo per il tempo in cui sono strettamente necessarie. Siamo il perno sul quale si è sviluppata la knowledge economy, abbiamo inventato la sharing economy: tutti i sistemi economici contemporanei coinvolgono o sono incentrati sui freelance.

È chiaro che il professionista indipendente sarà protagonista nello scenario futuro del lavoro e che si muoverà in maniera sempre più fluida tra modalità lavorative e contrattuali differenti nel corso della sua vita, magari superando per sempre il vecchio, caro modello del lavoro dipendente. Deve diventare così altrettanto chiara a tutti l’esigenza di un sistema condiviso di nuove regole e una base di tutele che rendano questo scenario futuro e non futuribile, convincente e non preoccupante. In poche parole una bella sfida, di quelle che sempre piacciono a noi.

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