Giochi senza frontiere

Ci sono tre parole, Made in Italy, che evocano valori universalmente positivi: la bellezza di un’automobile, la qualità di un prodotto alimentare, l’eleganza di un abito. Le tante difficoltà organizzative, l’instabilità politica e la lentezza nel superamento della crisi non impediscono all’Italia di affermarsi come marchio forte. Niente trionfalismi, però. Prima di esultare contiamo fino […]

Ci sono tre parole, Made in Italy, che evocano valori universalmente positivi: la bellezza di un’automobile, la qualità di un prodotto alimentare, l’eleganza di un abito. Le tante difficoltà organizzative, l’instabilità politica e la lentezza nel superamento della crisi non impediscono all’Italia di affermarsi come marchio forte.

Niente trionfalismi, però. Prima di esultare contiamo fino a dieci, respiriamo profondamente e chiediamoci se quel marchio sia davvero solo nostro.

Italiano a chi?

Si potrebbe pensare che un sistema imprenditoriale caratterizzato da sempre da un capitalismo a trazione familiare sia destinato a proteggere il suo collegamento con il territorio, ma le cose non stanno così: è vero che oltre il 41% delle partecipazioni nelle s.p.a. italiane è nelle mani delle famiglie imprenditrici, ma se guardiamo alle società quotate scopriamo che gli investitori stranieri detengono il 51,27% del totale delle azioni. Un dato le cui dimensioni si colgono meglio se lo si confronta con il 10% intestato alle banche o con il 3,65% posseduto dallo Stato. Esiste ancora un metro di valutazione affidabile per affermare la nazionalità italiana di un’impresa?

È emblematico ciò che avviene nel settore alimentare, quello che nell’immaginario collettivo si associa maggiormente, insieme alla moda, al concetto di italianità. Nei dieci anni tra il 2007 e il 2017 sono passate nelle mani di investitori esteri numerose società titolari di marchi DOP o a forte radicamento geografico: è il caso di Acetum, il principale produttore di Aceto Balsamico di Modena, che un anno fa è stata acquistata dalla Associated British Foods; della Peroni passata nelle mani dei giapponesi di Asahi (dopo essere entrata a far parte del gruppo sudafricano Sab Miller); degli olii d’oliva Bertolli, Carapelli e Sasso, ceduti dal gruppo spagnolo SOS al fondo statunitense CVC Capital Partners.

Un fenomeno difficile da cogliere per i consumatori: chi di noi, mentre apre la scatoletta dei dadi che da decenni reca l’immagine rassicurante della stessa mamma italiana, potrebbe sospettare che la Star appartenga a un gruppo spagnolo, o che stia addolcendo il suo caffè con lo zucchero Eridania di proprietà francese?

È tempo di prendere atto che il luogo in cui una società è stata costituita, quello in cui ha la sede legale, quello in cui produce, quello in cui vende e compra, quello in cui risiedono i suoi proprietari, possono essere tutti diversi tra loro. A seconda di quale consideriamo, risponderemo diversamente al quesito sulla italianità di un’impresa.

Imprese italiane all’estero, per convenienza

Esiste anche il fenomeno speculare: nel periodo tra il 2009 e il 2015 le imprese italiane che hanno acquistato o sottoscritto partecipazioni all’estero sono aumentate del 12,7%, passando da 31.672 a 35.684. Di queste, 14.400 (oltre il 40%) hanno aperto filiali o joint venture commerciali di imprese manifatturiere, il che equivale a dire che all’investimento di capitali all’estero si accompagna uno spostamento della produzione e della distribuzione. Per capire le ragioni che inducono gli imprenditori italiani a compiere queste scelte, basti il confronto di due dati: negli stessi sei anni il numero degli occupati all’estero di imprese a partecipazione italiana è diminuito del 2,9% (circa 50.000 addetti in meno) a fronte di un incremento del fatturato dell’8,3% (oltre 40 miliardi di euro in più).

Ci si potrebbe fermare qui e descrivere un fenomeno globale che, in nome dell’efficienza e della legittima ambizione delle imprese a migliorare i loro rendimenti, conduce all’abbattimento delle frontiere e alla cancellazione stessa del concetto di nazionalità dell’impresa. Ma queste ragioni fisiologiche non esauriscono le spiegazioni del fenomeno.

Ci sono imprese in difficoltà che scelgono di trasferire la sede all’estero per fruire dell’applicazione di una normativa più benevola in materia fallimentare. Per affrontare questi frequenti casi di vero e proprio forum shopping l’Unione Europea ha approvato l’apposito Regolamento CE n. 1356/2000, in base al quale la normativa in materia fallimentare del Paese nel cui territorio l’impresa opera effettivamente prevale sulla legge del Paese in cui essa ha la sede legale.

Concorrenza fiscale tra Stati

Ma la scelta di separare la nazionalità formale da quella sostanziale viene operata anche da numerose imprese in perfetta salute, per godere dell’applicazione di norme fiscali vantaggiose rispetto a quelle vigenti nel Paese di origine. È quella che nel gergo tributario si chiama “eterovestizione”: un’impresa stabilisce la sua sede in un Paese diverso da quello in cui produce il suo reddito per fare sì che quest’ultimo venga tassato dal fisco di quel Paese, che guardacaso applica aliquote fiscali molto più basse.

C’è in atto una vera e propria concorrenza tra Stati, combattuta a suon di esenzioni e agevolazioni tributarie. Le imprese assistono alla battaglia e ne approfittano assumendo di conseguenza le loro decisioni in materia di pianificazione fiscale.

Le cronache sono ricchissime di casi in cui l’eterovestizione è lo strumento per l’evasione fiscale. Nel 2017 fece notizia l’operazione Mercurio Web: le Fiamme Gialle dimostrarono che due società aventi solo formalmente la loro sede a San Marino svolgevano in realtà la loro attività di e-commerce in Italia, con la sede effettiva dell’amministrazione in provincia di Caserta e il magazzino di stoccaggio della merce a Rimini. I ricavi occultati – a cui corrisponde gettito sottratto all’Erario italiano – ammontavano a 70 milioni di euro.

Anche laddove siano compiute all’interno del perimetro normativo (si pensi al caso di FCA), queste scelte mettono in grande difficoltà lo Stato in cui l’impresa aveva originariamente sede e nel cui territorio continua a operare, producendo reddito destinato a essere tassato altrove.

E sono impressionanti i numeri relativi al gettito sottratto al fisco italiano da parte di imprese che non hanno mai avuto sede legale in Italia ma che producono reddito nel nostro territorio: pensiamo all’inchiesta nei confronti di Google per il mancato pagamento delle imposte sui contratti pubblicitari siglati con clienti italiani; o a quella relativa alla sottoscrizione da parte di 351 cittadini italiani di polizze assicurative presso la filiale italiana di Credit Suisse per un valore complessivo di 1 miliardo di euro; o infine a quella che vede indagati i vertici di Prada, per un caso di eterovestizione, attraverso la olandese Prada Holding, di profitti per 470 milioni che avrebbero dovuto essere tassati in Italia.

L’integrazione imperfetta

Non è semplice immaginare l’esito delle attività di accertamento e delle inchieste (anche penali) in corso. I sistemi giuridici nazionali appaiono deboli rispetto all’evoluzione delle prassi: si fatica a disciplinare quelle lecite e ancora di più a prevenire o reprimere quelle illecite. L’Unione Europea, capace come si è visto di intervenire efficacemente in materia di forum shopping fallimentare, non riesce a fare altrettanto in ambito tributario, bloccata dai veti degli Stati membri che rappresentano, grazie alla loro normativa nazionale, autentici paradisi fiscali rispetto ad altri Stati.

Ecco di che cosa si dovrebbe avere coscienza quando si parla di integrazione europea: decisioni rese possibili dall’affermazione del principio di libera circolazione dei capitali, delle persone e delle attività diventano vantaggiose grazie alla ritrovata affermazione – con riferimento alla normativa fiscale applicabile – del principio di nazionalità.

I confini svaniscono o al contrario diventano muri, a seconda della convenienza e dell’ambito normativo preso in considerazione: un paradosso tanto evidente che dovrebbe farci saltare dalla sedia. Sì, proprio quella sedia progettata da un designer olandese, prodotta in Veneto da un operaio asiatico dipendente di una società a capitale francese, distribuita on line da una società di e-commerce statunitense, con su scritto Made in Italy.

 

Photo by stevo3 [CC BY-NC-ND 2.0] via Flickr

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