Quando il giornalismo italiano faceva mentoring

“In Africa ogni volta che un anziano muore è come se bruciasse una biblioteca”, così disse nel 1962 all’Unesco Amadou Hampate Ba, intellettuale del Mali che ha dedicato buona parte della propria vita alla ricerca e all’archiviazione del patrimonio orale. È il senso dell’immortalità cercata nelle idee che spesso troviamo nell’attività dello scrivere, ma che […]

“In Africa ogni volta che un anziano muore è come se bruciasse una biblioteca”, così disse nel 1962 all’Unesco Amadou Hampate Ba, intellettuale del Mali che ha dedicato buona parte della propria vita alla ricerca e all’archiviazione del patrimonio orale. È il senso dell’immortalità cercata nelle idee che spesso troviamo nell’attività dello scrivere, ma che lascia spazio a una questione irrisolta: quella delle esperienze. Di quel bagaglio immateriale, fatto di pensieri, gesti, pratiche e consuetudini, di vita e di lavoro e di rapporti, che è memorizzabile tramite la scrittura o, solo in minima parte, tramite gli audiovisivi. Insomma ogni volta che qualcuno ci abbandona e brucia la biblioteca, a noi rimangono solo alcune pagine o, se siamo fortunati, un piccolo volume.
Eppure un sistema per trasmettere una parte maggiore di queste esperienze esiste, ma è poco noto in Italia. È il mentoring. Si tratta di un metodo di formazione incentrato sulla relazione tra un mentore – di solito una persona di provata esperienza, magari alla fine della propria carriera – e un mentee, ossia una persona giovane che desidera inserirsi nello stesso ambito professionale.
Un settore dove un tempo, non in maniera codificata, c’era qualcosa di simile anche in Italia è quello del giornalismo, nel quale chi voleva fare questa professione per prima cosa, una volta entrato in redazione, «doveva passarle tutte», mi disse il grande giornalista Sandro Viola, incontrato a Varsavia durante le prime elezioni libere e che fu chiamato a Repubblica da Eugenio Scalfari, quando il quotidiano era ancora solo un progetto.

«Di sicuro io un approccio di questo tipo non l’ho mai trovato e mi sarebbe servito – ci dice l’ex-giovane Giulio Finotti, trentacinquenne giornalista ora nella redazione de L’Aria che Tira a La7 -. «Quando ho iniziato con la cronaca locale a Caserta, mi venivano assegnati pezzi su argomenti che non avevo mai affrontato e che io accettavo anche perché altrimenti non sarei mai uscito dalla cronaca sportiva locale, con la quale ho iniziato». Però non è sempre così. «È comunque davvero difficile in questo mestiere trovare qualcuno che ti indichi una strada, anche se ogni tanto può capitare». Quando ho iniziato a collaborare a Il Mattino alcune indicazioni e alcune linee guida mi sono state date, ma più in generale nella mia carriera (a oggi 10 anni) il fatto di trovare colleghi più anziani che si prendono in carico di quelli più giovani non è che mi sia capitato di vederlo molto spesso. Si impara tutti per strada ed è chiaro che “maestri” servirebbero, anche perché nel giornalismo l’esperienza è essenziale». Il problema con ogni probabilità è che si tratta di una tipologia di rapporto in qualche maniera lasciato alla “buona volontà” di un caporedattore che si fa carico di consigliare e instradare un giovane nel quale intravede delle possibilità.

Ed è ciò che è successo alla giornalista trentaduenne freelance Sara Mauri, di Lecco. «Sono approdata al giornalismo con una mail. Specifico che non volevo fare la giornalista, ma ho sempre amato scrivere – esordisce Mauri – e quindi ho scritto un articolo sui nuovi mestieri  inviandolo alla sezione La Nuvola del Lavoro, un po’ per caso e un po’ per gioco. E’ stato pubblicato, ma non solo: sono stata anche invitata in redazione, dove mi è stato chiesto di rimettere a posto la parte iniziale sulla tecnologia. Dopo il Corriere della Sera, sono riuscita anche a pubblicare su La Stampa nell’inserto TuttoGreen, su La Provincia di Lecco, su La 27 Ora del Corriere, su Barche Magazine, NonSoloambiente e Startupitalia». E così qualche preziosa informazione sul lavoro riesce a passare anche verso i freelance che in generale rappresentano l’anello invisibile della filiera editoriale. «Secondo me la formazione sul campo si differenzia molto dalla formazione a scuola. Sul campo impari dagli errori, sbagli e rifai. Tocchi con mano le notizie, ci entri dentro. Puoi risolvere le questioni pratiche sulla pratica. Pratica vera su articoli veri. Non ringrazierò mai abbastanza chi mi ha cresciuta, chi ha creduto in me dall’inizio, chi mi ha insegnato questo mestiere con pazienza. Tanta pazienza. Il lavoro che altri giornalisti hanno fatto su di me è stato fondamentale per il mio futuro. Alla fine, mi hanno letteralmente “insegnato un mestiere”. Con bastone e carota».

La Francia ci insegna a insegnare

Oltre le Alpi, in Francia, il rapporto con i “grandi” è invece più articolato. «In Francia il ruolo del mentore è stato assunto da alcune figure che non si occupano tanto di un giovane giornalista: sono giornalisti che fanno “scuola” fondando un giornale (cosa che con ogni probabilità in Italia ha fatto solo Eugenio Scalfari con La Repubblica, n.d.r.) – ci dice Andrea Paracchini, giornalista di 35 anni, che ha lavorato a lungo in Francia. Con ogni probabilità il caso più eclatante è quello di Mediapart, rivista solo on-line dedicata al giornalismo d’inchiesta, il cui fondatore è stato, nel 2008, Edwy Plenel, direttore di Le Monde dal 1996 al 2004. Si tratta, secondo me, di un giornale che difficilmente avrebbe avuto successo senza Plenel». Stessa genesi per il sito di giornalismo ambientale Reporterre, nato e salito al rapido successo con ogni probabilità grazie alla notorietà del suo fondatore Hervé Kempf, creatore delle pagine “ecologia” sempre di Le Monde nel 2009 che abbandonò il quotidiano francese sul trattamento riservato al progetto del nuovo aeroporto di Nantes, vale a dire ciò che è stato per la Francia la nostra Tav italiana. «Si tratta delle migliori operazioni giornalistiche degli ultimi due anni, che secondo non si sarebbero potute realizzare senza queste due figure», prosegue Paracchini che aggiunge: «da almeno due anni Plenel afferma di volersi allontanare con gradualità da Mediapart, per farlo navigare da solo dopo averlo creato».

«Devo dire che oltre a ciò in Francia c’è un rapporto diverso con il lavoro. In tutti e tre i casi dove sono stato assunto ho partecipato a selezioni chiare, dopo le quali sei dentro – prosegue Paracchini. – Io devo molto al direttore dell’agenzia che mi ha assunto quando stavo iniziando in Francia. Trovarmi come primo giornalista assunto dopo il nucleo iniziale è stato un grande stimolo per continuare a fare il giornalista. Era meno di un anno che vivevo in quel Pese, avevo un francese ancora imperfetto, non avevo un curriculum francese e lui mi chiese di lavorare nella sua agenzia». Il rapporto con il lavoro è stato lo stesso in tutte le tre occasioni che hanno formato il percorso professionale di Paracchini. «E qui si nota la differenza con l’Italia. Nel mio caso, in Francia, ci sono state sempre proposte che giudico serie – continua Paracchini. Offerte di lavoro, magari con una retribuzione bassa ma sempre dignitose e con le quali in sostanza ti dicono: “io in te ci credo e con te voglio lavorare, fammi vedere cosa sai fare”. Non come in Italia dove si sprecano le proposte di periodi di prova, non pagati, conditi da un gran numero di “poi vediamo come va”».

La fiducia nel lavoro degli altri

Con ogni probabilità la mancanza di questa cosa è alla base di una così bassa diffusione del mentoring, una pratica che invece potrebbe portare a miglioramenti consistenti nella filiera editoriale se anche solo si adottasse il reverse mentoring, ossia un percorso bidirezionale tra i due. Un esempio per tutti il sensor journalism, ossia il giornalismo basato su sensori autonomi di proprietà del giornale. Un rapporto di reverse mentoring, infatti, consentirebbe di mettere in collaborazione un redattore con 30 o 40 anni di esperienza editoriale con un giovane giornalista informatico, magari esperto di Arduino, in grado di “creare” strumenti tecnologici innovativi nell’utilizzo grazie agli input del redattore anziano; viceversa, quest’ultimo potrebbe acquisire nuove chiavi interpretative derivate dalla tecnologie. Si tratta di una metodologia di lavoro che potrebbe sia superare la litania del “conflitto generazione” – che secondo me non esiste ed è un conflitto di classe, ma è un discorso che ci porterebbe lontano – sia arrivare all’ibridazione del lavoro intellettuale che è con ogni probabilità una delle poche possibilità per produrre valore e innovazione nella filiera dell’informazione.

Fantascienza? Forse sì, se riteniamo che Jeff Bezos, il proprietario di Amazon, sia un marziano. Il fondatore del più grande sito di e-commerce del mondo, che solo tre anni fa ha comprato con i propri soldi il glorioso quanto in declino Washington Post, ha annunciato la fine della crisi del quotidiano statunitense, rendendo nota l’intenzione d’assumere altri 60 redattori, tra i quali programmatori, data analyst, web designer e video editor che lavoreranno al fianco dei redattori. Tutti con pari peso e dignità.

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