Gli operai del diritto

Giudici e avvocati, forse vittime di una sorta di involuzione, somigliano sempre più a burocrati (pre)occupati di smaltire il lavoro sulla scrivania più che di svolgere la loro missione; una missione fondamentale per una società civile: assicurare la giustizia. Quella giustizia civile che – in teoria – dovrebbe essere contenuta in una sentenza emessa dopo […]

Giudici e avvocati, forse vittime di una sorta di involuzione, somigliano sempre più a burocrati (pre)occupati di smaltire il lavoro sulla scrivania più che di svolgere la loro missione; una missione fondamentale per una società civile: assicurare la giustizia.
Quella giustizia civile che – in teoria – dovrebbe essere contenuta in una sentenza emessa dopo che tutte le prove sono state raccolte e i litiganti hanno avuto modo di esporre le proprie difese.

Questo almeno stando al codice. Poi c’è la realtà – è una semplice constatazione – non prevista da nessuna norma giuridica: un non-luogo in cui il giudice viene maturando la decisione, man mano che il processo va avanti, legge gli atti, ascolta gli avvocati e tiene le udienze.
Succede così che le sentenze vengano emesse prima della scadenza dei termini difensivi. Non è una bizzarra ipotesi di un leguleio pentito, ma uno uno scorcio di vita giudiziaria. Scadenza dei termini 30 giugno, sentenza emessa il 24 giugno.

Gli avvocati si ritrovano quindi tra le mani (o meglio nella tecnologica casella di posta certificata) una sentenza, mentre stavano ancora scrivendo i loro atti finali: un po’ come se l’arbitro fischiasse la fine della partita prima del tempo regolamentare o un professore mettesse il voto allo studente prima della fine dell’interrogazione.
La sentenza è chiaramente illegittima, su questo siamo tutti d’accordo, ma non è il vizio della decisione la notizia.

I meta-messaggi sono infatti interessanti: come prendono davvero le decisioni i giudici? E che ne pensano gli avvocati?
Noi tutti immaginiamo che il giudice delle nostre controversie, presenti o future, corrisponda alla figura virtuale stampata nei codici, che rispetti le regole e decida coscienziosamente.
Ma se non si fosse verificato l’errore, ci saremmo persi un pezzo importante della realtà: chissà quante altre volte il giudice potrebbe aver deciso “fuori dalle regole” senza che avvocati e litiganti ne sapessero nulla?
E come essere certi che si tratti di un eccezione e non di una regola? Noi tutti non sappiamo assolutamente nulla di cosa avvenga nella mente del giudice e nemmeno di come si crei quel simulacro di giustizia che chiamiamo sentenza.

Provo ad abbozzare una visione alternativa a quella ideale che più o meno ogni cittadino ha del modo in cui si giunge ad una decisione “In nome del Popolo Italiano”.
Una persona normale non si immagina un giudice con migliaia di fascicoli che deve trattare questioni da centinaia di migliaia di euro insieme a questioni da poche migliaia di euro; decidere di questioni che potrebbero impattare sulla vita di un’azienda o dirimere una lite tra vicini. Un giudice che è “costretto” a sopportare ogni giorno avvocati che si accapigliano per ogni questione, come se ne andasse di mezzo, ogni volta, la vita o la morte dei propri clienti. Vortici di parole, fiumi di inchiostro e tonnellate di carta.

Un giudice che collabora con cancellieri ancora più sopraffatti da una mole mostruosa di faldoni, carichi di adempimenti burocratici e perennemente sotto organico.
Una situazione molto italica si dirà e in effetti lo stesso potrebbe verificarsi in ogni altra amministrazione pubblica, dalle scuole agli ospedali.
Mentre però i giornalisti sono pronti, lancia in resta, a dare addosso al medico per l’ennesimo “inescusabile” errore di malasanità, raramente si legge o si sente di giudici che sbagliano, tranne che si tratti di errori macroscopici.

A me interessano molto di più gli errori microscopici, quelli che non si vedono, ma che esistono e che possono essere tanti, proprio perché nessuno se ne preoccupa, li va a cercare o ne parla.
Come nota argutamente Nassim Taleb c’è una differenza drammatica tra “la prova dell’assenza” e “l’assenza della prova”.
Non mi interessa se quella dei magistrati sia una casta; mi preoccupa molto di più l’immagine che ne abbiamo, come di uomini e donne al di sopra degli altri, scrupolosi, preparati, imparziali. Forse, a volte, lo sono.
Ad essere realisti però sono essere umani come me e voi, con le stesse debolezze e criticità, eppure quando si tratta di giustizia si entra in una dimensione quasi mitica e mistica.
La giustizia degli antichi ci fa a volte sorridere o inorridire, ma a ben vedere, abbiamo solo sostituito un mito con un altro: non più indovini che leggono interiora o indagano le volontà di inavvicinabili dèi, ma funzionari pubblici infallibili.

Se non fossero ritenuti infallibili, non sarebbero così usati. Le loro decisioni non sono prese per quello che sono, ossia come frutto di un compromesso tra esigenze di celerità, incertezze organizzative e spruzzate di diritto.
Ecco, se uno si fermasse a riflettere davvero sul rischio di ottenere una sentenza-compromesso, invece che una sentenza-ideale, potrebbe anche chiedersi se il gioco valga la candela.
C’è un altro attore, infatti, che recita il ruolo di co-protagonista in questo dramma: l’avvocato. Il professionista che dovrebbe rappresentare al cliente queste distorsioni e fargli apprezzare – parafrasando De Gregori – la differenza tra la legge e la giustizia. Con l’aggravante che rispetto alla canzone del Principe le cose sono peggiorate e parecchio: molti più processi e molti più avvocati, modesto aumento del numero di magistrati.
Dunque il tribunale sembra diventato un sentenzificio in cui disincantati avvocati incapaci – per inconsapevolezza, dolo, colpa, vergogna, orgoglio o amor proprio, fa poca differenza – non riescono a far capire ai propri clienti come stanno realmente le cose.

Le rivoluzioni più pericolose sono quelle che non fanno rumore, che si insinuano a piccoli passi, senza fretta: di fronte a tutto ciò, la grande capacità nazionale di adattamento che consente per certi versi di sopravvivere, per altri ci condanna in una spirale verso l’abisso.
Ci ritroviamo così missionari che, strada facendo, sono diventati operai impegnati a spostare concetti e carte (virtualmente) bollate invece che carrelli o pallet.

Non è la stessa cosa: il lavoro intellettuale dovrebbe contemplare una indispensabile dose di responsabilità morale ed etica. Nessuno ordina di diventare giudici o avvocati: forse alcuni si sentono “ingannati” dal sistema e si ritrovano a combattere con numeri ed ambienti diversi da come se li erano immaginati. Forse sottovalutano che il mondo è ingiusto o al contrario ripagano i litiganti con la stessa ingiustizia.

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