I leader di domani: inclusione e dissenso

Gli ambienti di lavoro sono prima di tutti sistemi sociali e negli ultimi anni hanno subito gli stessi mutamenti: hanno subito mutamenti generazionali e di genere e nel cambiamento hanno generato nuove e diverse esigenze con cui la managerialità ha dovuto confrontarsi. Oggi un manager è chiamato a saper gestire altre forme di relazioni, meno […]

Gli ambienti di lavoro sono prima di tutti sistemi sociali e negli ultimi anni hanno subito gli stessi mutamenti: hanno subito mutamenti generazionali e di genere e nel cambiamento hanno generato nuove e diverse esigenze con cui la managerialità ha dovuto confrontarsi.

Oggi un manager è chiamato a saper gestire altre forme di relazioni, meno rigide, meno verticali e per fortuna, se volessimo usare una metafora politica, più democratiche ed inclusive rispetto a quelle di qualche decina di anni fa e con forme di conflitto differenti che hanno meno a che fare con le categorie sociali e sono più personali.

Per molti manager vecchio stampo la democrazia non è un sintomo del buon funzionamento di un ambiente di lavoro, per me sì e provo a spiegare perché.

Mi sono chiesta spesso quanto la mia formazione politica abbia influito nella mia formazione di manager: quello che so è che la capacità lavorare con le persone è l’aspetto più importante che oggi valuto in fase di colloquio o con cui prendo le decisioni quando devo assegnare delle responsabilità. Questo aspetto sta diventando sempre più importante nella selezione dei manager di aziende private e multinazionali, ma manca invece nella selezione pubblica: una delle cose che manca nella selezione concorsuale dei dirigenti pubblici è proprio l’assessment della leadership.

Se da una parte questo aspetto sta diventando sempre più importante nella selezione dei nuovi manager, allo stesso tempo, a mio avviso, chi seleziona ha ancora dei pregiudizi nell’interpretazione corretta di cosa significhi veramente saper gestire le persone e sapere lavorare in gruppo. In poche parole non basta dire che quello che cerchiamo in un leader è l’autorevolezza e non l’autoritarismo (concetto ormai trito e ritrito), ma è necessario definire l’autorevolezza e metterle accanto altre parole per poter definire correttamente la leadership democratica ed inclusiva.

Cosa significa essere autorevole? Un capo autorevole è un capo che non viene contestato o un capo che ha sempre ragione?

La mia esperienza mi dice che non esistono luoghi dove non funziona nulla o dove le cose non vanno perché le persone non sono capaci. Esistono luoghi dove le responsabilità non sono chiare e definite e dove ci si aspetta che sia qualcun altro a risolvere il problema, luoghi dove i singoli non sono integrati tra loro, non sono inclusi, non percepiscono l’appartenenza ad un collettivo. Questi luoghi sopravvivono in tempi di vacche grasse, soccombono in tempi di vacche magre e non c’è dubbio sul fatto che la crisi abbia determinato un cambio di mentalità, una specie di mutazione genetica simile a quella che avviene nei sistemi evolutivi che cambiano per sopravvivere e non estinguersi: solo un ambiente di lavoro che funziona può sopravvivere alla crisi.

Il tema è, appunto, come si costruisce un ambiente di lavoro che funziona.

Per me un ambiente di lavoro che funziona, che è innovativo, che genera creatività è un ambiente di lavoro democratico ed inclusivo.

Per costruirlo genero momenti di scambio continuo tra me e miei primi livelli, favorisco la discussione e la dialettica anche nei miei confronti. Un leader che ha paura delle critiche delle persone che lavorano con lui ha un tallone di Achille e, anche se è bravo, prima o poi potrebbe sbagliare e nessuno glielo potrà dire per paura della sua reazione.
Quindi: ascoltare. E per me ascoltare è favorire il dissenso.

L’ascolto deve contenere la curiosità e la curiosità ha un doppio binario: la curiosità umana e la curiosità professionale. Se non siete curiosi delle persone che lavorano con voi come potrete metterle al posto giusto? Se non siete curiosi delle loro idee come potrete innovare? Conoscere le persone che lavorano con noi determina una maggiore capacità di abbinarle in modo che si compensino o si alimentino. Conoscerle significa anche sapere quali parole usare quando, per esempio, diamo un feedback negativo sapendo che quel momento di “crisi” deve generare una reazione positiva.

Conoscerli significa fidarsi di loro e fidarsi di loro significa delegarli. Un leader che non delega prima o poi sbaglia perché non può arrivare sempre ovunque. Delegare significa determinare aree di responsabilità e generare managerialità: questa cosa è compito tuo, questa è la tua piccola città e puoi amministrarla. Ovviamente la delega impone il confronto continuo ed eccoci di nuovo qui: per poter delegare dobbiamo generare un ambiente di lavoro in cui qualsiasi dubbio possa essere esposto senza timore, anzi, dobbiamo favorire i dubbi perché i dubbi favoriscono la riflessione.

E poter parlare, poter decidere significa essere inclusi, un concetto più ampio di inclusione. Siamo abituati a parlare di inclusione pensando alla diversità. Ma la vera inclusione (questo vale nella vita politica come in azienda) è l’accesso alle responsabilità, l’inclusione nella stanza dei bottoni. Più delega si concede alle persone che lavorano con noi, più esse si sentiranno azioniste degli effetti che il proprio lavoro produce. Per me la vera inclusione passa da lì: non da una generica accettazione, ma dalla delega chiara e piena. Sta al manager poi saper distribuire i ruoli e le deleghe considerando la diversità, dove la diversità non è altro, in questo caso, che l’attitudine.

In questo ho un approccio socratico alla managerialità. Alcune attitudini come l’assertività, l’ascolto, la capacità di delegare, la capacità di capire le persone e metterle al posto giusto sono innate nelle persone e si imparano nei primi anni di vita, al massimo qualcuno può ricordarti che sono dentro di te, la famosa maieutica socratica, appunto.

È difficile insegnare ad un adulto l’ascolto o la sensibilità verso la natura umana. È vero, per contro, che un bravo manager che possiede le caratteristiche di cui sopra è anche capace di fare emergere il meglio delle persone che lavorano con lui o con lei. Perché se favorisce il lavoro di squadra e non la competizione scorretta tra le proprie persone ne fa uscire un aspetto positivo e non uno negativo. Anche questa è una delle cose che dobbiamo sapere cogliere nelle persone che vogliamo siano i manager del futuro.

 

(Credits photo: Brendan O’Shea)

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