I riti interrotti

L’innovazione ha cambiato o interrotto nel corso del tempo i processi lavorativi e le abitudini a questi correlate. Si potrebbe parlare di veri e propri ‘riti interrotti’. Secondo l’antropologo Simone Ghezzi, docente e ricercatore al Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Milano Bicocca, “c’è una nuova costruzione del sapere legata alla tecnologia”. La […]

L’innovazione ha cambiato o interrotto nel corso del tempo i processi lavorativi e le abitudini a questi correlate. Si potrebbe parlare di veri e propri ‘riti interrotti’. Secondo l’antropologo Simone Ghezzi, docente e ricercatore al Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Milano Bicocca, “c’è una nuova costruzione del sapere legata alla tecnologia”. La sfida? Imparare a interagire con l’innovazione. Alcune figure professionali ci sono riuscite; altre invece non hanno saputo cogliere la sfida e ora stanno scomparendo insieme ai riti che le caratterizzavano. I riti spezzati in alcune professioni ne introducono altri, delineando un nuovo scenario lavorativo contemporaneo.

L’innovazione nell’agricoltura: 1.471.185 aziende agricole

La rivoluzione tecnologica ha scombussolato le abitudini legate alla professione contadina. Dopo una fase in cui il legame quasi sacrale con i ritmi della natura è stato cancellato dall’agricoltura industriale, oggi si stanno recuperando i valori tradizionali del passato, arricchiti dall’innovazione. È nata la figura del nuovo contadino, inserito nella logica imprenditoriale e nelle nuove tecnologie ma nel rispetto della natura. Secondo i dati diffusi da Coldiretti (Elaborazioni Coldiretti su dati Crea), in Italia ci sono 1.471.185 aziende agricole. Il valore della produzione agricola è pari a 50.250 milioni di euro, mentre il numero degli occupati risulta essere pari a 1.202.000. Le imprese biologiche sono ben 49.070. Si stanno diffondendo anche i mercati di vendita diretta del contadino. E gli italiani apprezzano: nel 2016 il 43% ha fatto spesa nei mercati contadini, con un aumento del 55% negli ultimi cinque anni, mentre gli acquisti biologici sono incrementati del 21%. Per quanto riguarda gli investimenti di ricerca e sviluppo nelle tecnologie agricole, il Crea – Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia – si posiziona all’ottavo posto nella classifica europea degli enti di ricerca per i finanziamenti ottenuti nel settore ‘Food Security, Sustainable Agriculture and Forestry, Marine, Maritime and Inland Water Research and the Bioeconomy’.  Oltre che per le risorse ottenute (più di 3,2 milioni di euro), la partecipazione a progetti europei è fondamentale per la crescita professionale dei gruppi di ricerca e per l’internazionalizzazione dell’Ente.

Il nuovo contadino: riti cancellati e riscritti

La giornata lavorativa del contadino era scandita da riti precisi, in comunione con la natura. Le fasi del lavoro erano ritmate dal ciclo delle stagioni. Il contadino di una volta osservava il cielo per cogliere l’andamento del tempo e i possibili effetti sulle coltivazioni, non perdeva mai il conto dei giorni che passavano e osservava le fasi lunari per le pratiche agricole. Era abitudine pregare la Madonna e i Santi affinché proteggessero i raccolti e ringraziare il Signore quando tutto andava per il verso giusto. La società capitalistica ha segnato il passaggio all’agricoltura industriale. Le abitudini del passato sono state cancellate. Prodotti sempre più standardizzati, coltivazioni che non seguivano il ciclo delle stagioni, uso di pesticidi e fertilizzanti hanno scardinato il rapporto uomo natura.

Il contadino diventa tecnologico

Ora però la direzione sta cambiando. “Non ci si rendeva conto delle conseguenze negative – spiega Simone Ghezzi – Ora c’è consapevolezza. Il nuovo contadino ha incorporato in un contesto capitalistico i valori di una volta, utilizzando le nuove tecnologie”. Sensori, mappe GPS, dispositivi che garantiscono la differenziazione degli interventi, droni per controllare terreni e colture, siti e pagine social stanno diventando le nuove abitudini, integrate ai valori della tradizione.

Il paradosso dell’intagliatore: poche decine per un mercato internazionale

Innovazione e meccanizzazione hanno trasformato anche i riti sul lavoro dell’intagliatore. Fra questi è fondamentale – come in tutte le professioni artigianali – la trasmissione del sapere. Rito che sembra destinato a scomparire. Ormai anche gli intagliatori sono rimasti in pochi. Non si conosce il numero esatto, poiché la classificazione delle attività economiche dell’Istat non comprende nello specifico questa figura. Secondo le ricerche di Simone Ghezzi si è passati in poco tempo da centinaia a poche decine sul territorio interessato dalla produzione del mobile d’arte, la maggior parte già in pensione. Un dato che si scontra con la richiesta di questa figura sul mercato internazionale.

L’intagliatore e la rivoluzione tecnologica

L’attività di intaglio si praticava solitamente in casa o nelle botteghe. Le fasi – dalla creazione del prototipo fino alla decorazione del legno – erano eseguite a mano. La formazione e la trasmissione del sapere avvenivano nel contesto familiare. Con l’introduzione dell’abbozzatrice meccanica, la produzione è divenuta standardizzata, pur partendo da un prototipo necessariamente eseguito a mano. La produzione industriale, in parte meccanizzata, ha sostituito le botteghe. L’innovazione sta andando avanti con l’introduzione delle macchine a controllo numerico e con la sperimentazione della stampa in 3D per alcune decorazioni.

L’intagliatore e i suoi riti: cancellati dall’innovazione?

Quindi l’innovazione tecnologica ha cancellato i ‘riti’ della professione? Non proprio. Il fenomeno è analizzato da Ghezzi: “L’intaglio è stato svalorizzato dalla tecnologia ma noi non siamo stati capaci di trasmettere questo sapere alle nuove generazioni. Il paradosso sta nel fatto che c’è una nicchia di mercato internazionale – per esempio la Russia – che richiede il mobile in stile. Si è sviluppata anche l’industria del turismo esclusivo, soprattutto nell’area del Golfo Persico, che ha stimolato la costruzione di numerosi alberghi di lusso con arredamenti che richiamano l’opulenza. Mancano però le figure professionali. Gli artigiani stessi sono stati incapaci di trasmettere il loro sapere: l’apprendistato non è stato più riproposto”. La soluzione? “Una classe dirigente economica che abbia la consapevolezza che il suo è un ruolo sociale, di trasformazione e innovazione della società; una classe politica che abbia la capacità di monitorare il mercato, intervenendo dove si crea un disequilibrio e la consapevolezza che la scuola professionale non deve essere considerata come ultima possibilità. Bisogna intervenire in modo organico”.

L’autotrasportatore, quando il lavoro diventa rito

Il cambiamento nell’organizzazione indotto dalle innovazioni della società contemporanea ha stravolto anche le abitudini legate al rito delle pausa lavorativa intesa come momento di aggregazione e di socialità. Al suo posto è subentrato un nuovo rito: l’identificazione nel lavoro stesso. Il mestiere dell’autotrasportatore rappresenta bene questo cambiamento. La moltiplicazione dei poli dei traffici, la maggiore potenza dei veicoli, l’avvento dell’autostrada e soprattutto i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro hanno creato un divario tra le abitudini del camionista nel passato e quelle contemporanee.

L’autotrasportatore, tra ritmi serrati e scelte obbligate

Secondo i dati Istat, nel 2015 sono stati registrati nel parco veicolare in Italia 4.636.303 autocarri (merci e speciali). In riferimento all’anno 2014, Istat registra un trasporto su merci pari a oltre 960 milioni di tonnellate. E i ritmi del trasporto su gomma sono serrati.  Il fenomeno è analizzato da Francesco Bogani, dottore di ricerca in antropologia e segretario del Centro ricerche etno antropologiche di Firenze, durante una ricerca condotta qualche anno fa al fianco degli autotrasportatori: “Rispetto al passato la tensione dei ritmi lavorativi risulta maggiore. C’è molto più rigore nei tempi di ritiro e di consegna delle merci. Non ci sono margini per gestire il proprio tempo liberamente. Il pranzo nella cabina del camion diventa una scelta nel momento in cui non si può scegliere dove e quando interrompere il lavoro; e di conseguenza si è costretti a trasformare lo spazio lavorativo in domestico. L’assenza di separazione può portare però al rischio di una conseguente assenza di limite per cui il lavoro può schiacciare altri aspetti dell’esistenza”.

Il paradosso delle pause obbligate

Non solo. Anche le pause possono diventare problematiche. “Il camionista deve adeguarsi ai tempi della committenza ma al tempo stesso alle normative sulle pause, pur sacrosante – spiega Bogani – Le pause obbligate però possono diventare problematiche. Nel corso della mia ricerca, è capitato che gli autotrasportatori con cui viaggiavo fossero costretti a viaggiare di notte, terminata la pausa obbligatoria. Spesso si sente parlare di manomissioni al cronotachigrafo e di innovazioni tecnologiche volte a scongiurarle. Per esempio, si è passati da uno strumento analogico a uno digitale”.

Alla ricerca di un equilibrio

Niente a che vedere con i tempi passati, quando i camionisti coltivavano il rito della pausa vissuta come momento per relazionarsi con i colleghi, magari pranzando in un ristorante. Non mancano gli interventi istituzionali per cercare di ristabilire un equilibrio, per esempio l’obbligo per le imprese di formare adeguatamente i loro autisti sul corretto uso del cronotachigrafo e di effettuare controlli periodici. Recentemente è stata firmata anche dall’Italia la ‘Road Alliance’, documento che ha l’obiettivo di tutelare i diritti e la sicurezza dell’autotrasportatore.

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