L’ignoranza mortale nel nuovo mercato

L’ignoranza nel business è mortale. Intendiamoci, non è ancora morto nessuno, ma quando a rimetterci sono gli azionisti, qualche testa vola fuori dal board. Il problema è che il mondo è un posto un po’ più grande del nostro stivale e ci sono circa 7 miliardi di persone (più o meno) che sono diversi da noi […]

L’ignoranza nel business è mortale. Intendiamoci, non è ancora morto nessuno, ma quando a rimetterci sono gli azionisti, qualche testa vola fuori dal board.

Il problema è che il mondo è un posto un po’ più grande del nostro stivale e ci sono circa 7 miliardi di persone (più o meno) che sono diversi da noi per gusti, cultura, tradizione e, pensate un po’, anche per lingua.

Ora, tanto per imparare dai grandi (too big to fail?), riflettiamo sul costo dell’ignoranza, specie quello che finisce nel Profit & Loss. Tra casistiche positive e negative.

1. Ignoriamo il mondo: “Ci espanderemo in Asia”

Bellissimo, ci sarebbe da capire cosa intende un manager di sviluppo estero, o peggio un Ceo, per Asia. Se si dice “in Europa” si deve distinguere tra Unione Europea, Europa dell’est, Euro Zona e ad ognuna di queste aree corrispondono sotto classi di gusti, interessi di acquisti, lingue. In aggiunta a questo, ogni nazione ha leggi, codici di marketing, modifiche al brand book. Un esempio di “lost in translation” e (o) di ignoranza?

Alla Nike volevano creare un paio di scarpe da allenamento speciali. Una “special edition” per il mercato cinese. Quindi sul retro delle loro trainer hanno pensato bene di cucire (una per scarpa) la parola (rigorosamente in lingua cinese) “Fa” che significa “diventare ricco” e sull’altro tallone la parola “Fu” che significa “arriva la fortuna”. Considerando quanto il cinese medio è superstizioso, una cosa del genere è sicuramente un auspicio di futura ricchezza che può attrarre i compratori. Peccato che quando le due scarpe vengono messe vicine i due termini “Fa + Fu” significhino “diventare grassi”.  Non esattamente il miglior augurio che Nike, che vende “cose” sportive per tenersi in forma, possa fare al compratore medio cinese. Mi domando, se qualcuno al dipartimento marketing e prodotto di Nike abbia studiato il mercato e la lingua cinese o abbia deciso di vivere nella beata (ma costosa) ignoranza.

Non oso immaginare quanti cinesi, superstiziosi come sono, si siano precipitati a fare shopping selvaggio di questo speciale modello.

2. Ignoriamo le informazioni: non considerare i dati

Dalla tua esperienza, quali opportunità offre l’analisi dei dati nella decisione di entrare in un particolare mercato estero?

«Molte società non sfruttano la potenza dei dati quando cercano di entrare in un nuovo mercato. I canali digitali offrono oggi strumenti per attuare analisi di business intelligence preliminari a costi fortemente ridotti. Se in passato, per entrare in un mercato era necessario investire mesi in relazioni e spostamenti, oggi in poche settimane si può costruire un test online per verificare l’effettivo interesse di un particolare mercato in un prodotto o servizio, e valutare rapidamente quale tipo di comunicazione sia più performante. A volte, si mettono in atto “test in incognito” senza neppure dover rischiare di sporcare il brand prima di attivare l’effettiva campagna di go-to-market», spiega Paolo Meola, CEO di Instilla, agenzia di conversion marketing e SEO a Milano, che si occupa tra l’altro di digital business intelligence e di internazionalizzazione digitale (in pratica analisi dati, scenari, proiezione, vendita di prodotti, il tutto sfruttando i canali digitali).

3. Ignoriamo la promozione: non adattare i propri canali di marketing e vendita.

Molte compagnie, specie quelle occidentali, ritengono di poter entrare in altri mercati usando lo stesso approccio usato nei mercati d’origine. In nazioni dove le relazioni hanno un alto valore, come il Giappone, vendere prodotti e servizi tramite partner locali – ad esempio i rivenditori e i partner di canale – permette una crescita di fatturato più veloce rispetto alla vendita diretta.

«Quando si entra in un mercato straniero, ci sono da considerare diversi fattori: in primis c’è da considerare tematiche culturali legate al messaggio e alla comunicazione. Il messaggio da veicolare in paesi del Sud America è totalmente diverso da quello che va disegnato per approcciare l’Est Europa o i paesi dell’ex area sovietica. Qui non si tratta neppure di ottimizzare le performance, ma proprio di rischiare di affondare un brand prima ancora di entrare in un mercato, anche solo per una parola di troppo in un claim. Il secondo aspetto è invece legato ai canali da utilizzare: quando si sviluppa una campagna in Russia, bisogna considerare strategie di digital marketing ottimali per Yandex, VKontakte e Viber; per entrare in Cina bisogna studiare campagne per Baidu e WeChat. In Brasile (passato Orkut) oggi una campagna su Facebook potrebbe avere massime performance (ci sono aziende in Brasile che hanno addirittura abbandonato il sito web aziendale, in favore di una comunicazione che passa solo dalla pagina Faceboook); in alcuni paesi dell’America latina, bisogna considerare Twitter come canale principale. Qui in Italia pensiamo solo a Google e Facebook, ma basti pensare che, se da noi Google ha il 95% del mercato, in US questo dato scende al 68%. Per entrare in un nuovo mercato, anche digitale, è necessario conoscere gli strumenti più adatti e la comunicazione ottimale», spiega Meola.

4. Ignoriamo l’offerta: non adattare i prodotti offerti

La perfetta combinazione di prodotto-mercato si ottiene nazione per nazione.

Un’attenta analisi delle politiche dei prezzi (vedi Microsoft in india nel 2004) è una chiave del successo quando si decide di sbarcare in altre nazioni.

 5. Ignoriamo i nativi: assumere i locali ma non scatenarli

Siete sbarcati nel mercato e avete assunto, cooptandoli da competitor locali, i migliori talenti. Chi va a dirigere le strategie di vendita e marketing? Ovviamente chi arriva da fuori perché in fondo, diciamocelo, “moglie e dipendenti dei paesi tuoi”. Quindi, per non sbagliarci, mettiamo a capo il nostro migliore manager, quello che magari “conosce il Paese”. Dopo tutto se lui pianifica e i manager locali eseguono, è vittoria certa.

E invece, perché non usare la leva locale per muoversi e pianificare le strategie? Usare il personale locale che, si suppone, ha già la sua rete di contatti, di fiducia e di informazioni è una mossa fondamentale.

Questi appena elencati sono i casi più comuni in cui l’ignoranza costa. Costa risorse, costa brand, costa punti e trimestrali.

Partendo da un approccio più “leggero” come la proiezione digitale estera menzionata da Meola, ogni azienda, prima di lanciarsi in un nuovo mercato, può avere l’opportunità di esplorare meglio quello che si trova davanti.

Con i margini sempre più bassi, “Sbarchi in Normandia” (il primo giorno oltre 10000 caduti e nessun obbiettivo sensibile conquistato) in mercati stranieri sono coraggiosi ma dispendiosi. Una intelligence digitale e una strategia di penetrazione strutturata possono senz’altro ridurre i “danni da ignoranza”.

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