Il conflitto nascosto sta anche nel Referendum

Una dozzina di persone sono riunite in una stanza, nel retro di un locale pubblico. Si guardano con sospetto, i sorrisi sono forzati. Uno di loro ha davanti a sé un mucchio di carte. Sta per prendere la parola, consapevole che sarà interrotto, in meno di trenta secondi, dalla prima di una lunga serie di […]

Una dozzina di persone sono riunite in una stanza, nel retro di un locale pubblico. Si guardano con sospetto, i sorrisi sono forzati. Uno di loro ha davanti a sé un mucchio di carte. Sta per prendere la parola, consapevole che sarà interrotto, in meno di trenta secondi, dalla prima di una lunga serie di accuse. Ha una sola possibilità di salvezza: far sì che i suoi inquisitori si rivoltino l’uno contro l’altro.

Non è la scena di un incontro tra capimafia, né una riunione di cospiratori. È solo un’assemblea di condominio, con l’amministratore nel ruolo dell’uomo che sta per parlare e i condomini in quello degli inquisitori, pronti a scannarsi l’un l’altro. È il contesto ideale per analizzare la nascita e lo sviluppo di un conflitto.

Immaginiamo che in discussione ci sia la ritinteggiatura delle scale interne e che sul colore ci sono dieci desideri diversi. Questa è una divergenza di opinioni, che magari è difficile da comporre, ma finché rimane nel merito delle scelte – «io voglio il blu perché è più elegante», «io il giallo perché dà luce» – non è un conflitto. Lo diventa quando il problema non è più decidere quale colore sia il migliore per le scale, ma chi ha il diritto o il potere di prendere quella decisione. E, naturalmente, questa vicenda si porta dietro i vissuti di quella tormentata comunità che è un condominio. «Cosa? Pautasso si permette di parlare del colore delle scale? Proprio lui che ha messo gli infissi rosso scarlatto?».

Un altro esempio che aiuta a capire la distinzione tra un contrasto – che è sui contenuti – e un conflitto – che è sulla relazione – lo forniscono i referendum. Noi elettori possiamo agire in tre modi: votare sì, votare no, astenerci. Tre opzioni tra cui scegliamo dopo che, sul quesito proposto, abbiamo letto, studiato, discusso tra amici e conoscenti. Senonché, il giorno dopo ci accorgiamo di aver sbagliato tutto. Politici e commentatori vari ci hanno spiegato, a proposito del referendum del 17 aprile, che in ballo non c’erano le concessioni a estrarre gas e petrolio entro le dodici miglia dalla costa.

No, l’oggetto della consultazione riguardava il dare o meno una spallata al governo in carica, scegliere tra il presidente della regione Puglia o il presidente del Consiglio, sostenere i Cinque Stelle o il Partito Democratico. Riassumendo: chi ha votato pensando solo al quesito si è mosso sul terreno del confronto delle idee; chi ha assegnato al referendum altri significati s’è spostato sul piano del conflitto. E, sia detto chiaramente, i primi han fatto bene, i secondi hanno sbagliato.

Al lavoro la situazione è analoga. Quelli che dovrebbero essere sani incroci di punti di vista diversi, spesso nascondono conflitti. Un caso da manuale è quello di due lavoratori di fronte alla disponibilità di un solo avanzamento di carriera. I due potrebbero sfidarsi lealmente, cercando di dare il meglio ogni giorno. Una sana competizione, insomma, che però accade raramente. È più facile che i due cerchino di danneggiarsi a vicenda, spostando così la questione sulle relazioni: non mi preoccupo di fare bene il mio lavoro, mi preoccupa solo che l’altro svolga il suo compito peggio di me. Un meccanismo perverso, che genera danni a tutte le parti coinvolte.

Ma nel contesto lavorativo a generare conflitti sono più spesso altre situazioni. Ad esempio una lotta di potere particolare: quella per la propria autonomia. A tutti, chi più chi meno, può dare fastidio dover rendere conto del proprio operato a qualcuno. Eppure, quando si lavora con altri, è irrinunciabile. E allora, un modo per scardinare sul nascere i conflitti, è quello di fare chiarezza. Un conto è non gradire che mi vengano messi dei limiti, un conto è non averli capiti bene, questi limiti. «Da chi sei stato autorizzato a fare quella cosa?». «Non sapevo di dover prima chiedere…».

I conflitti, sia chiaro, non si evitano a colpi di procedure, bensì imparando a confrontarsi. Un gruppo in cui le persone non condividono le diverse opinioni – magari per timore di offendere qualcuno – è un gruppo fragile, incapace di valorizzare la ricchezza che consiste nel possedere più punti di vista. Non solo: è un gruppo ad alto rischio di conflitto. Infatti, un buon modo di far scoppiare litigi è proprio quello di evitare di dirsi le cose, sino a quando la tensione accumulata è talmente alta che il tutto viene fuori, in modo però difficile da gestire.

Lavorare sui conflitti, in sintesi, vuol dire prima di tutto capire cosa sta succedendo. Consiste nell’accorgersi quando le difficoltà stanno nelle relazioni, e non nei contenuti. Ci vuole capacità di osservazione e di analisi, ma soprattutto occorre pazienza. Prima di lanciarsi nel ricostruire responsabilità – o addirittura affibiare colpe – bisogna addentrarsi in un’analisi a tutto tondo: quali sono gli attori coinvolti, per esempio, o chi soffre di più (che non è la vittima, ma solamente quello più disposto a trovare una soluzione). Solo dopo avere risposto a simili domande è possibile costruire le soluzioni che ci portano fuori dal conflitto.

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