Il lavoro ha bisogno di una nuova legalità

Il merito di chi ha organizzato Nobìlita, di chi è intervenuto e di chi ha ascoltato, è di aver condiviso l’idea che ha ispirato trasversalmente tutte le discussioni: non parlare del lavoro senza parlare delle persone. I grandi temi del lavoro, in fondo, sono ancora gli stessi del passato: il rapporto tra il lavoratore e […]

Il merito di chi ha organizzato Nobìlita, di chi è intervenuto e di chi ha ascoltato, è di aver condiviso l’idea che ha ispirato trasversalmente tutte le discussioni: non parlare del lavoro senza parlare delle persone.

I grandi temi del lavoro, in fondo, sono ancora gli stessi del passato: il rapporto tra il lavoratore e l’azienda; i doveri del lavoratore e i suoi diritti; la remunerazione e le altre forme di gratificazione e di riconoscimento; il luogo e il tempo del lavoro; la ricerca di un lavoro che manca o di un lavoro migliore di quello che si ha; i rischi di chi un lavoro lo ha e la fragilità di chi non lo ha, o non lo ha più.

Invece cambiano completamente le parole con cui questi problemi si pongono e si discutono. Ancora, prima cambiano i principi e i valori a cui le parole sono ispirate. Manca ancora un cambiamento necessario: quello delle regole e degli strumenti per farle rispettare.

Il lavoro e le persone: alcuni interventi da Nobìlita

“Si parla del lavoro come categoria astratta e quasi mistica”. Brava Annamaria Testa: chissà se un giorno la politica, i sindacati e i media si sveglieranno dal sonno che li ha portati per anni fuori tema – discutendo dell’Articolo 18 come se fosse un feticcio, ad esempio – per trovare il modo di spezzare l’equazione tutta italiana tra flessibilità e precariato. O per capire che lo sbarco dopo una traversata non segna la fine dell’immigrazione, ma il suo inizio, e che da quel momento in avanti, perché ci sia integrazione nel rispetto delle regole, devono esserci libertà e lavoro. O magari per comprendere che il rapporto tra l’azienda e il lavoratore non migliora riducendo il costo per la prima e le tutele per il secondo, ma dando solidità ad un sistema produttivo fragile, e che dunque può creare solo un lavoro fragile.

“Occorre un approccio di sistema tra scuole, aziende e persone” dice Alessandro Camilleri, come se rispondesse alla domanda di Elisabetta Zanarini che si chiede “se le aziende, prima che cercare competenze, cerchino adesione sui valori”. E allora ecco volare sopra le nostre teste, nella grande sala dell’Opificio Golinelli, l’idea di Sebastiano Zanolli per cui si deve “aggiungere umanità alla competenza”.

In altre occasioni avrei sentito sapore di astrattezza, di impotenza e di rassegnazione a un’evidenza fatta di lavoro umano destinato a essere sostituito dall’intelligenza artificiale (con netta prevalenza dell’aggettivo sul sostantivo).

Questa volta, invece, sento finalmente dire che dopo la distruzione della tutela collettiva del lavoro, la tensione alla tutela individuale non ha migliorato le cose. E che un Paese che finge di ignorare la differenza tra una referenza e una raccomandazione, nel quale la rete delle relazioni personali è di fatto il solo motore che consente di trovare un lavoro, è un Paese ingiusto che ha l’urgenza di inventare reti professionali e servizi di avviamento al lavoro. E che per farlo occorre creare – sulla base di appositi studi universitari – una rete di orientatori davvero preparati per fare questo, consapevoli che gli strumenti giusti per trovare un lavoro non sono gli stessi che si usano per automotivarsi.

Stavolta finalmente qualcuno dice che chi lavora nel terzo settore non fa volontariato. Che in molti casi gli si chiede di essere più specializzato di quanto avvenga nel settore profit, ma malgrado questo viene pagato di meno.  Eppure è capace di trovare motivazione dalla soddisfazione personale che nasce dal collegamento tra il proprio lavoro e il proprio bagaglio valoriale: come ne sono capaci i giovani lavoratori di cui parla Andrea Paoli, quando ricorda che “all’inizio della carriera la cosa più importante non sono i soldi ma la formazione e l’esperienza che l’azienda può offrire”. O come David Bevilacqua che dopo una lunga carriera di successi come manager ha virato completamente quando ha capito che “la ricchezza non è possesso di beni quanto possesso di tempo”.

Le nuove richieste del lavoro

Il lavoro e la persona si sono tenuti per mano per due giorni interi, a Nobìlita, ma hanno bisogno di un sistema di regole nuovo, scritto guardando alla sostanza e non alla forma. Disciplinare la vigilanza sui luoghi di lavoro non ha senso se non si considerano anche il lavoro a distanza e lo smart working. Un sistema di controlli non può più essere incentrato sul rispetto degli obblighi di presenza e di orario, ma deve basarsi sul raggiungimento o meno degli obiettivi prefissati.

I criteri di calcolo delle retribuzioni non possono più limitarsi al dato formale del numero dei giorni e delle ore di presenza, ma devono contemplare anche il raggiungimento degli obiettivi e prevedere criteri predefiniti di variabilità. La definizione delle mansioni di un lavoratore è molto più elastica di quanto avveniva in passato, e risente della possibilità che egli le svolga in tempi e in luoghi che cambiano giorno per giorno: questo solleva e coinvolge questioni molto delicate in materia assicurativa, di sicurezza del lavoratore e dei luoghi di lavoro, tutte ancora da affrontare.

Senza considerare che il confine tra lavoro subordinato e lavoro autonomo è diventato in molti casi labile, portando a chiedersi se estendere le tutele tradizionalmente pensate per il primo anche al secondo, e in che misura.

Poi ci sono le questioni correlate alla circolazione delle persone e delle imprese, e allo sviluppo tecnologico: la presenza nel territorio italiano di imprese straniere per cui lavorano dipendenti stranieri pone il problema della giurisdizione e della legge applicabile ai rapporti di lavoro. La facilità con cui una produzione può essere delocalizzata vanifica la disciplina che garantisce continuità del rapporto di lavoro in caso di cessione dell’azienda. L’accesso da parte del lavoratore a migliaia di dati induce a chiedersi se la disciplina attuale degli obblighi di diligenza e di fedeltà sia idonea ad affrontare le questioni reali.

Il bisogno di una nuova legalità

Che il Diritto intervenga quando i mutamenti sociali sono già in atto è fisiologico. È patologico che non lo faccia quando i mutamenti sociali sono già acquisiti: il nuovo lavoro chiede di inventare regole o di modificare quelle esistenti.

C’è una nuova legalità da inventare, senza commettere un errore di prospettiva molto frequente: se le regole formali che conosciamo faticano a funzionare per le nuove tipologie di rapporto lavorativo, e se il problema è aggravato dalla difficoltà a discernere tra lavoro autonomo e lavoro dipendente, è sbagliato pretendere di applicare il diritto formale ormai inadeguato. Non ci si riuscirà, e i tribunali saranno invasi da una nuova ondata di contenziosi. Ma è ancora peggio abolire di fatto le tutele nascondendosi dietro l’alibi della loro inapplicabilità: oltre che sbagliato, è complice.

I contratti possono contenere le risposte alle questioni che sono state elencate, molto prima e molto meglio rispetto alle sentenze dei Tribunali. E la produzione di tanti contratti contenenti quelle risposte potrà portare all’affermazione di consuetudini che in un primo tempo potranno operare come fonti autonome non scritte del diritto; in seguito potranno incidere sull’evoluzione delle interpretazioni giurisprudenziali; infine potranno orientare le scelte del legislatore nella creazione di un nuovo diritto formale.

 

Photo by fiordirisorse [CC BY-NC-ND 2.0] via Flickr. Photographer: Felicita Russo

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