Il lavoro lo ruba la motivazione?

Scrivendo questo pezzo dal Giappone non posso che constatare l’enorme impatto del fattore culturale (anche) sui temi legati al lavoro; in particolare quello “di basso livello”. Nel digitare queste parole mi sento anch’io corresponsabile della categorizzazione, che poi è parte della stessa cultura che stavo criticando. Provo a uscire dai miei panni e a vedere […]

Scrivendo questo pezzo dal Giappone non posso che constatare l’enorme impatto del fattore culturale (anche) sui temi legati al lavoro; in particolare quello “di basso livello”. Nel digitare queste parole mi sento anch’io corresponsabile della categorizzazione, che poi è parte della stessa cultura che stavo criticando. Provo a uscire dai miei panni e a vedere il tutto da un altro punto di vista.

La metropolitana e il frigorifero. Differenze tra Italia e Giappone

Qui nel Paese del Sol Levante qualunque lavoratore, pubblico o privato, indipendentemente dalla mansione che svolge, mostra una particolare attenzione al cliente; non importa che sia un addetto al controllo dei biglietti nella metro o che gestisca il traffico di pedoni intorno ai cantieri stradali (uno ogni pochi metri, per la precisione, e tutti con il caschetto), oppure un anziano cassiere in un negozio.

Non voglio ovviamente esprimere un giudizio comparativo, ma solo riflettere sull’importanza dell’aspetto culturale, che poi si traduce in quello motivazionale e relazionale. Mi sono sentito davvero a disagio dal punto di vista umano nell’osservare l’addetto della metro che mi dava indicazioni rimanendo per tutto il tempo con la schiena leggermente chinata. Poi, un attimo dopo, mi sono sentito attonito ripensando a un suo collega in una qualsiasi metropolitana nostrana. Fanno lo stesso lavoro e immagino ricevano uno stipendio simile, ma come lo fanno è molto più importante di che cosa fanno: la solita regola base della comunicazione che ci perseguita.

Siamo animali relazionali: l’effetto di contenuto è spesso secondario. Anche nelle occasioni in cui il lavoratore giapponese non sapeva rispondere alla richiesta, non si notavano sul suo volto smorfie di fastidio. Per contrasto, spesso i lavoratori italiani sfoggiano l’empatia di un frigorifero.

Questione di cultura. Del lavoro

Due interrogativi mi tormentano: perché tanta differenza e come cambiare.

Per quanto riguarda il primo quesito, se non è un fattore culturale, non so cos’altro possa essere. Con cultura intendo una base di principi etici, non giuridici, e non solo educativi: qualcosa di palpabile che contraddistingue una popolazione o una parte di essa. Una base sulla quale poi poggiano molti dei comportamenti umani, tra i quali rientra anche l’atteggiamento verso il proprio lavoro. Indipendentemente da quale possa essere.

Si insinua allora un’altra domanda, forse utile per rispondere al secondo quesito: dove e chi costruisce la cultura?

Non voglio improvvisarmi psico(bio)logo dell’età evolutiva, ma sento di poter dire che fino all’adolescenza il cervello tende ad assorbire senza troppe critiche quello che il mondo degli adulti gli propone: famiglia e scuola hanno un ruolo determinante. Ciò che sembra mancare è una strategia chiara e comune: quel che ne risulta non può che essere una personalità estremamente elastica.

Come direbbe Nardone, ognuno di noi si influenza reciprocamente: la differenza stata tutta nell’avere un obiettivo. Esiste così un influenzamento casuale e uno strategico, ossia orientato a un fine. La scuola o la famiglia che non seminano principi etici non stanno creando una persona libera, ma una persona vuota, la quale si costruirà dei principi a suo uso e consumo al momento del bisogno, sotto la spinta – purtroppo – di pulsioni emotive inconsapevoli.

Tra i fini che sembrano mancare figurano anche quelli relativi al lavoro (tacendo di tutto il resto per non andare fuori tema): un bambino o ragazzo che non viene educato a interrogarsi sulla funzione del lavoro già da prima (in modo proattivo) si darà delle risposte solo dopo (in modo reattivo). Lavorare otto o dieci ore solo per portare a casa una somma di denaro è soddisfacente? Passare la maggior parte della giornata a fare qualcosa solo per denaro, nel periodo di migliore forma fisica della propria vita, fa stare bene?

Casa e scuola non potrebbero stimolare una riflessione sui talenti personali di figli ed alunni per far emergere quello che davvero li rende soddisfatti? Certo, far sbocciare un talento costa fatica. Richiede applicazione, passione, tenacia e una parola che si usa sempre meno: sacrificio.

Il bisogno di resilienza

Leggo che a Rimini sono in difficoltà a trovare aiuto cuochi, camerieri e affini. Si tratta di lavori per tutta la stagione 2018 che non trovano quasi candidati: però c’è un problema di disoccupazione! Preparare la sala, correre tra i tavoli tutta la giornata e ripulire a notte fonda non fa per voi? Ok. Anche per fare il cameriere ci vuole talento, ossia passione, attitudine e motivazione.

Ogni lavoro, a ben vedere, richiede una o più capacità che non tutti hanno; non possiamo mettere dei lavori in basso e altri più in alto. Alcune posizioni richiedono certe conoscenze e titoli, ma la motivazione e la soddisfazione no. Un netturbino che ha fatto della pulizia della strada la sua missione si sente soddisfatto di aver pulito un posto che prima era sporco. Se quel netturbino fosse un laureato che non ha trovato niente di meglio da fare, poco cambierebbe per la strada e per i passanti: non dovrebbero essere l’ambiente e la società a rimetterci. Invece, almeno da noi non è così.

Tra ciò che manca, quindi, c’è anche una cultura della resilienza. Quella che consente di mettersi in pace con se stessi, riconoscendo che pulire male la strada non migliora affatto la situazione, e anzi la peggiora, autoalimentando quella sorta di ruminazione emotiva che causa perenne insoddisfazione e sofferenza.

Il ruolo della scuola

Arrivato a questo punto, che coincide con il fatidico mezzo secolo anagrafico, mi chiedo: ma che cosa mi è davvero rimasto di quell’altra cultura, quella scolastica, composta di storia, geografia e letteratura? Ed ecco che in un attimo mi sono tirato contro tutti gli insegnanti, ai quali vorrei però segnalare che il mio è un problema di quantità.

Mi sono rimasti infatti molto più vivide e utili le alzatacce con mio zio a raccogliere letame di pecora per le sue amate rose, le giornate estive da tredicenne manovale muratore e le estati da adolescente contadino col trattore a raccogliere balle di paglia (leggere) e di fieno (pesanti, provare per credere). A diciott’anni avevo un’idea abbastanza chiara su che cosa fosse il lavoro fisico, il che non mi ha minimamente impedito, durante l’università, di passare quindici giorni a fare il cameriere in una rievocazione storica dalle 19 alle 2-3 della mattina. La stessa in cui oggi, salito di grado, faccio il cuoco.

La scuola deve creare ragazzi con tante conoscenze o ragazzi con una coscienza? Mi chiedo spesso che cosa penserei oggi del lavoro senza quelle esperienze e che cosa ne può pensare un ragazzo che non ha mai sperimentato alcun lavoro, protetto com’è dai genitori e ignorato sotto tale profilo dalla scuola.

Certo, c’è l’alternanza scuola-lavoro: utile, quando non si traduce in sfruttamento dovuto al netturbino-laureato di prima, stavolta travestito da funzionario, che a tutto pensa meno che al bene del ragazzo, e al contempo si lamenta di quella società che lui stesso sta contribuendo a costruire. Il solito cane che si morde la coda.

È il caso di chiudere con le parole di Gandhi: dobbiamo essere il cambiamento che vogliamo. A partire dalla pulizia delle strade, anche e soprattutto se i colleghi non lo fanno e se ne fregano, perché i loro errori non possono giustificare i nostri.

A questo proposito, tornando sulle mie reminiscenze scolastiche, una delle poche cose che ricordo di algebra è che -1+-1 fa -2, e non zero.

 

Photo by Steve Koukoulas [CC BY-NC-ND 2.0] via Flickr

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