Il “markettaro” ha scoperto il project team

“There’s never been a better time to be in advertising, and there’s never been a worse time”, ha detto qualche tempo fa Aaron Reitkopf, esperto americano di Digital Marketing. Effettivamente, con l’avvento del digitale il mestiere del markettaro (o marketer, che dir si voglia) si è molto arricchito. Di possibilità e anche di complessità. Le […]

“There’s never been a better time to be in advertising, and there’s never been a worse time”, ha detto qualche tempo fa Aaron Reitkopf, esperto americano di Digital Marketing. Effettivamente, con l’avvento del digitale il mestiere del markettaro (o marketer, che dir si voglia) si è molto arricchito. Di possibilità e anche di complessità. Le possibilità di raggiungere le persone con messaggi di comunicazione adatti ai loro interessi sono enormi, così come la mole di contenuti prodotti e fruiti da persone e organizzazioni (basti vedere il grafico sottostante).

 

gori

Tuttavia, questa libertà è arrivata a braccetto con una iper-segmentazione di ruoli e competenze. Oggi, per fare una buona campagna di comunicazione digitale in un contesto mediamente strutturato, bisogna riunire in una stanza 30 persone fra interlocutori interni ed esterni all’azienda committente. Ciascuno di loro fa un pezzetto e ha delle conoscenze specifiche e tecniche che spesso mancano a chi gli siede accanto. Con l’aggiunta della solita infornata di acronimi e wording, chiari soltanto ad una parte di quella stanza.

È la parcellizzazione di un mestiere semplice (“vendo questo prodotto/servizio e penso che possa esserti utile”) e ne rappresenta la sua naturale evoluzione. Anzi, riguarda tanti aspetti del fare impresa, non solo il marketing. Tuttavia, si porta con se’ anche dei minus importanti. Come si trova l’equilibrio fra l’iper-dettaglio tecnicamente fondamentale e la visione d’insieme necessaria per non perdersi nel classico bicchier d’acqua? A volte si fa fatica, visto che chi prende decisioni non ha perfetta contezza della fattibilità tecnica di ciò che decide. Come si garantisce che una discussione che coinvolge 30 attori diversi rimanga comunque utile ed efficiente? Non semplice, anche soltanto per incastrare le agende di tutti. Come ci si assicura che temi fondamentali come l’imprenditorialità e l’accountability non escano stritolati dalla numerica degli attori coinvolti? Con difficoltà crescente.

Dall’altro lato dello spettro dei contesti organizzativi aziendali, ci sono le piccole aziende e le start-up. Le metto concettualmente sullo stesso piano, perché alla fine una start-up non è nient’altro che un’impresa nella fase iniziale del suo ciclo di vita, all’avvio (da qui, il termine inglese). Trattasi delle famose “cinque persone che fanno tutto”. In questa parte di mondo, non c’è modo di parcellizzare i mestieri e scendere troppo nel dettaglio. Ci si rimbocca le maniche, si prendono dei rischi, spesso ci si occupa di ambiti nei quali non necessariamente si è ferratissimi. D’altronde, quando si è in cinque e si deve fare tutto (marketing, supply chain, customer service, vendite, finance) non ci si formalizza. Il tempo è risorsa scarsa e quindi lo si spreme al massimo. Ovvio, si fanno errori e sicuramente non si fa l’uso più efficiente delle risorse disponibili.

La vera domanda è: possibile che questi due mondi, e le loro necessità organizzative, non abbiano niente da imparare l’uno dall’altro? Sono destinati a continuare nella inevitabilità della parcellizzazione da un lato e della non-divisione dei ruoli dall’altro? Io non credo. Il ponte fra questi due mondi viene a volte rappresentato, dentro i contesti mediamente strutturati, dai team di progetto. I team multifunzionali di questo tipo vengono creati spesso in maniera informale per occuparsi con particolare focus o velocità o imprenditorialità (torna la parola magica) di una sfida che l’azienda ha individuato. Ne ho visti parecchi in azione, sia da consulente che da manager. Rappresentano un ponte fra i due mondi proprio per il modo in cui il lavoro viene organizzato al loro interno: poche persone (di solito max 10), che in una sorta di laboratorio possono e devono agire start-up style, cioè con velocità, approssimazione, da piccoli general manager. Ciascuno di loro, però, può e deve appoggiarsi alle competenze tecniche specifiche che i suoi colleghi, fuori dal team ma lontani pochi desk, possiedono in abbondanza. Infatti, ciascuno rappresenta in piccolo un leader della propria job family o funzione aziendale e deve interpretare il suo ruolo nei due sensi di marcia: portare al tavolo del team di progetto le istanze di tutti i colleghi funzionali; calare le decisioni prese dal core team dentro la funzione aziendale da lui rappresentata.

Certo, questo ruolo non è adatto a tutti e richiede delle skill particolari da un punto di vista di gestione delle dinamiche interpersonali, che vanno ad aggiungersi a quelle più prettamente tipiche del proprio ruolo di job family. Tornando all’esempio iniziale – 30 persone chiuse in una stanza a costruire una campagna di comunicazione digitale – si tratterebbe di portare anche lì l’approccio da project team: pochi rappresentanti delle varie realtà coinvolte, con ruolo di connettori verso una platea più ampia di esperti specifici e uno spirito di imprenditorialità e visione d’insieme.

Non è facile, ma incastrare le agende improvvisamente sarebbe una passeggiata.

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