Il microcosmo di Prato e le generazioni del tessile

“A Prato c’è la guerra”. Inizia così il libro del giornalista Giorgio Bernardini, corrispondente del Corriere Fiorentino e dell’Ansa. In: “Chen contro Chen. La guerra che cambierà Prato” (edito da Round Robin, 2014), l’autore ridisegna il territorio urbano e suburbano di Prato dentro il quale si muove il microcosmo cinese, spezzato da un conflitto che […]

“A Prato c’è la guerra”. Inizia così il libro del giornalista Giorgio Bernardini, corrispondente del Corriere Fiorentino e dell’Ansa. In: “Chen contro Chen. La guerra che cambierà Prato” (edito da Round Robin, 2014), l’autore ridisegna il territorio urbano e suburbano di Prato dentro il quale si muove il microcosmo cinese, spezzato da un conflitto che vede schierarsi da una parte i giovani Chen (nati e/o cresciuti in Italia) e dall’altra, i grandi Chen (genitori emigrati). In ogni storia, sono dieci, che indaga e racconta, Bernardini affronta, a partire dalle situazioni marginali e dalle vicende di razzismo, l’interazione, quasi sempre scontro, tra la società pratese composta anche da imprenditori del tessile, con quanti compongono la Chinatown di Prato, insieme ai conflitti vissuti all’interno delle famiglie cinesi, che si scagliano in una guerra isolata e silenziosa. A lui abbiamo chiesto una fotografia reale della situazione socio-economica della città, il più importante distretto tessile italiano a livello europeo ma che negli ultimi dieci anni ha perso più di ventimila posti di lavoro e dove, sempre più, si afferma l’imprenditoria cinese dell’abbigliamento.

Facciamo qualche passo indietro. Quando è iniziata la trasformazione economica-industriale di Prato?

Dopo il 2001, la globalizzazione neo-liberista ha avuto riflessi importanti e ha comportato una vera rivoluzione nel distretto di Prato, tradizionalmente destinato all’export e sempre più basato sull’eccellenza e legato alla filiera del lusso. Contemporaneamente all’insediamento di una comunità di immigrati cinesi, decisi a produrre abiti e maglieria, l’imprenditoria tessile locale veniva colpita da una forte crisi economica, precedente alla grande crisi internazionale del 2009. La domanda internazionale di tessuti subiva un calo considerevole mentre virava su altri Paesi come la Turchia o la stessa Cina, mandando in crisi migliaia di aziende tessili e industriali. Oggi si contano circa quattromila fabbriche cinesi che impiegano trentamila connazionali contro le duemilacinquecento imprese del tessile pratese.

Cosa pensano i pratesi dei nuovi arrivati?

Li definiscono ‘sfruttatori’ perché dietro le loro produzioni si accusa un sistema di illegalità e di evasione fiscale che vorrebbe fregiarsi dell’etichetta ‘Made in Italy’. O quando vengono accusati di alterare il mercato perché disposti a lavorare anche per pochi soldi. Il pratese è convinto che del suo insuccesso imprenditoriale sia responsabile unicamente il popolo cinese, in grado di produrre a costi notevolmente più bassi rispetto loro. Li considerano una minaccia, una malattia da debellare.

E dei giovani Chen?

C’è un sentimento di odio e malessere molto più evidente. Sono spesso vittime di gang criminali (italiane e africane). Vengono derubati e picchiati: ogni giorno i giornali ne riportano due o tre casi di cronaca. Nel mio libro li chiamo ‘bancomat cinesi’: hanno infatti l’abitudine di andarsene in giro con i contanti nelle tasche dei pantaloni, per questo vengono presi di mira. Sono soldi che spediranno in Cina, ai loro parenti. I giovani cinesi pagano le colpe dei genitori che ambiscono a un progetto di vita diverso, quello di tornarsene un giorno a casa. I più giovani, invece, nati a Prato, desiderano crescere e vivere qui, italianizzarsi, dunque, e rispettare le regole. Parlano perfettamente la lingua italiana, conoscono il mandarino cinese e quella inglese, a differenza dei loro genitori che parlano soltanto il dialetto cinese.

Perché tutta questa rabbia sociale?

Il vero dramma è che i pratesi senza gli occhi a mandorla vorrebbero che le imprese cinesi di abbigliamento comprassero i loro tessuti, quando, invece, li importano dal loro Paese d’origine. Nascono da qui le proteste sociali e le numerose rivendicazioni. Una trasformazione industriale e un impoverimento del settore tessile che non ha nulla a che vedere con il proliferare di aziende cinesi di abbigliamento. “Borghesia di Confucio” è la storia dove spiego meglio il motivo che porta i cinesi a intraprendere un viaggio così importante: dalla Cina meridionale (da dove provengono quasi tutti) per approdare in un luogo con diversità abissali. Quando arrivano, capiscono che esistono possibilità di arricchirsi, per questo aprono fabbriche ma comprano dalla loro casa madre i tessuti con i quali producono abiti, magliette, e altri indumenti. E questo ai pratesi proprio non va giù.

Pratesi e cinesi faranno la pace? Per quale idea di futuro?

Sicuramente assegnando a ciascuno gli stessi doveri e gli stessi diritti che consentirebbe un’evoluzione dei rapporti economici. Oggi l’esercito cinese è composto da padri e figli: è questa la vera guerra. Un conflitto tra i giovani cinesi, che qui sono nati e qui vogliono continuare il loro progetto di vita e i loro genitori che sognano di tornarsene a casa. Quando i grandi Chen, che oggi sono presenti in numero superiore, saranno in minoranza rispetto ai loro figli e nipoti ovvero quando questo conflitto generazionale sarà superato, solo allora si giungerà a un modello Prato di futura convivenza sociale ed economica.

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