Parlare l’Inglese come nelle slide

Martedì, ore 13:00 in punto. Arrivo trafelato in un bar del centro di Milano, a poche fermate di metropolitana dal mio ufficio. Piove (strano). Un saluto di presentazione al mio “ospite”, poi dritti a conquistare il primo tavolino libero, rapida occhiata alla vetrina con i tramezzini in attesa di essere conquistati, noi pronti per ordinare […]

Martedì, ore 13:00 in punto.

Arrivo trafelato in un bar del centro di Milano, a poche fermate di metropolitana dal mio ufficio. Piove (strano).

Un saluto di presentazione al mio “ospite”, poi dritti a conquistare il primo tavolino libero, rapida occhiata alla vetrina con i tramezzini in attesa di essere conquistati, noi pronti per ordinare e… si parte. Mi presento, cominciamo a parlare di lavoro, ascolto le sue interessanti esperienze, entriamo nel vivo della “riunione” e da lì a poco comincia uno show strepitoso.

“L’ultima call è stata davvero quick” mi dice, “il guest straniero aveva un altro meeting e così niente briefing per il progetto, niente follow-up per il prospect, boss scontento e arrabbiato con me perché ora si aspetta comunque un update asap. E io non so come fare”.

E si, adesso… come farà?

Ovviamente è stato tutto chiaro per me: il suo interlocutore straniero aveva di meglio da fare, lui è rimasto con il cerino in mano e, cosa più rilevante, il suo capo è scontento. Il nostro incontro è andato avanti il tempo di finire il panino, scambiarci i reciproci contatti e poi ognuno per la sua linea metropolitana. 40 minuti in tutto. Confesso che è stato un contatto piuttosto proficuo dal punto di vista professionale ma quello che mi sono domandato rientrando in ufficio è stato: “perché?”.

Quello che gli inglesi chiamano la reason why.

Perché ci ostiniamo a voler infarcire di cosiddetti “inglesismi” il nostro quotidiano professionale? Perché creiamo questi sotto codici comunicativi? Perché ci ostiniamo a volerli trattare come collante o, peggio ancora, come segno distintivo?

Prima di tutto, confesso che anch’io sono stato colto anni fa da quella che chiamo SAII, ovvero la “Sindrome degli Acronimi Inglesi Inutili”. Nel tempo ho cercato di evolvere quel modo di parlare e di limitarmi ad utilizzare alcuni inglesismi chiari e codificati che siano lì prevalentemente per fare sintesi – che è una dote che apprezzo particolarmente sul lavoro – ad esclusivo uso dei collaboratori. E su questo effettivamente alcune parole inglesi sono inequivocabilmente chiare e aiutano a comunicare un concetto in maniera diretta, facendoti anche un po’ sentire in colpa se avevi pensato di cavartela con un giorno di ritardo su una scadenza oppure cercando di portare altri argomenti al tavolo della discussione!

Tornando alla reason why, questo linguaggio portato all’esterno dal proprio contesto aziendale, sottende un inconsapevole atto di posizionamento professionale, proiettandoci verso una precisa condivisione di dimensioni societarie, concetti, momenti, visioni del lavoro e dei colleghi. Mi riferisco ovviamente al mondo delle multinazionali, dove in effetti il vocabolario inglese è estremamente pervasivo perché oltre il 50% del tempo lavorativo lo si spende nel redigere, gestire e/o presentare progetti internazionali con la conseguente frequentazione di colleghi stranieri che trovano nell’inglese il loro “canale” di condivisione.

Quando “linguaggio” però viene comunemente utilizzato per cercare di distinguersi, anche da chi una multinazionale non l’ha mai vista da vicino, se non acquistano un articolo on-line. E lo spettacolo è poco edificante.

A proposito, ricordiamoci che quando arriva un ospite straniero in azienda ed è appena uscito dall’ascensore, dopo i saluti, non diciamogli “follow me” perché viene usato solo dalle forze dell’ordine! Meglio un “please, come this way”. E in sala riunioni, offriamogli dell’acqua ma non “with gas” o “without gas”, come saremmo portati a fare ma “still” o “sparkling”. Da ultimo prepariamo il contenitore del caffè all’americana… si, lo so cosa state pensando ma funziona così e se ne beve tantissimo in tutto il mondo tranne che in Italia.

Da ultimo, attenzione, attenzione, attenzione alle pronunce. Linkedin, revenue, managing meeting, management, department, annual balance sheet (attenzione in particolare alla pronuncia di sheet, siate molto lunghi, sheeeeet e il motivo è facilmente intuibile). Esse possono rivelare ad un orecchio attento la nostra impreparazione e/o ostentazione con un’inevitabile scivolata in un inaspettato girone dantesco. La buona notizia è che esistono moltissimi strumenti digitali per poter migliorare da subito la pronuncia di questi vocaboli e, altrettanto utile, approfittare dei notiziari stranieri on-line per poterci allenare quotidianamente all’inglese. Dieci minuti al giorno, un po’ come la sana camminata quotidiana e ci accorgeremo progressivamente di avere un orecchio più attento e quindi una lingua più pronta ad emettere questi “strani” suoni a cui non siamo mai stati abituati.

Premesso che non sono un purista della lingua italiana, riconosco però di essere italiano e, come tale, di dover (e voler) utilizzare il più possibile la nostra meravigliosa lingua. E quando parlo in inglese con gli stranieri mi capita invece di utilizzare qualche parola in italiano. A parte farlo per sostituire vocaboli inglesi che ancora non conosco, sono consapevole che la nostra lingua comunica da subito bellezza e musicalità. Non è un caso se gli stranieri utilizzano abitualmente alcune parole in italiano e, guarda caso, sono tutte rappresentative dell’ ”essere” italiani, riflettendo gli aspetti tipici più apprezzati della nostra cultura (e talvolta non solo quelli). Ciao, buongiorno, bello, dolce vita, sonetto, pianoforte, mamma mia, pizza, pasta e altri ancora.

Noi italiani abbiamo un marchio positivamente indelebile nel mondo e troppo spesso ce ne dimentichiamo: siamo creativi, ingegnosi, amanti e portatori di bellezza, con la miglior cucina al mondo e con un territorio che, da solo, racchiude oltre il 70% delle bellezze artistiche di tutto il pianeta terra.

In conclusione, l’inglese va usato con estrema moderazione (e soprattutto competenza) per non diventare una preda della SAII e soprattutto per comunicare quotidianamente come sappiamo fare al meglio: da italiani.

Ad majora!

CONDIVIDI

Leggi anche

Cara Italia, ci mangio con la laurea in Beni Culturali?

Il tema è molto dibattuto in Italia e pone numerosi interrogativi – legittimi – sul perché, quando i giovani affermano di voler studiare Storia dell’Arte per lavorare nel settore culturale del nostro Paese, rimaniamo scettici. Partendo dalla famosa e infelice frase “con la cultura non si mangia” attribuita a Giulio Tremonti, il quale ha poi […]