J’accuse. Il libro delle scuse sta a zero pagine

Quando si parla di scuse mi vengono subito in mente le storie che i bambini si inventano pur di non ammettere di aver rotto il vaso, di aver mangiato la torta, di non aver fatto i compiti.  Mi ricordo che da piccola mia sorella si divorò un’intera scatola di cioccolatini di proprietà di mio cugino e […]

Quando si parla di scuse mi vengono subito in mente le storie che i bambini si inventano pur di non ammettere di aver rotto il vaso, di aver mangiato la torta, di non aver fatto i compiti.  Mi ricordo che da piccola mia sorella si divorò un’intera scatola di cioccolatini di proprietà di mio cugino e fece sparire le prove della malefatta piano piano, buttando le cartine in cestini diversi, facendo a pezzi la scatola che disseminò tra stufa, scuola e il suo armadio dove mia mamma trovò l’ultimo brandello di cartone rosso che la incolpava. Senza via di scampo, di fronte all’evidenza, confessò che “Se aspettavi ancora un giorno non trovavi manco quello…”. Sapendo di aver sbagliato, andò incontro alla sua punizione accettandola serenamente. Anche io ho combinato le mie ma non è il momento di parlarne.

Piccole bugie da bambini dette per evitare una punizione o un rimprovero che altro non sono che la giusta conseguenza di un’azione sbagliata. A volte si inventano fantasiose alternative alla realtà per giustificare disposizioni a cui non hanno ottemperato, azioni non agite, momenti di distrazione: “Il cane mi ha mangiato gli esercizi di matematica”, come se il cane non avesse niente di meglio da mangiare.

Fantasie che sono comprensibili perché sono proprie dell’età, una capacità che gli adulti richiamano in alcuni contesti. Si chiamano alibi, parola che invece richiama alla mente i film polizieschi: Poirot, Maigret e il più moderno CSI americano che incolla l’audience di fronte al teleschermo, tutti ansiosi di capire chi è il colpevole, perché l’essere umano che inventa balle per proteggersi da rimproveri e punizioni è lo stesso che scatena alla ricerca della verità il segugio che è in lui. Tanto è che le “Cene con delitto” hanno un seguito mica da poco. E allora, tra un boccone e l’altro, i commensali prendono appunti, si sfidano a trovare le prove e a spiegare l’accaduto con collegamenti logici che di logico hanno ben poco. E’ vero, sono momenti ludici e così devono essere, risate in compagnia.

Quando invece gli alibi, le scuse e i voli pindarici si sprecano sul posto di lavoro, personalmente non ci trovo più nulla da ridere. “Io? Non ero neppure là” oppure “Non sono stato io, è un lavoro che non mi compete” o altre frasi che tutti quanti abbiamo sentito almeno una volta nella vita, inventate o dette con il solo scopo di non prendersi la responsabilità dell’accaduto. Un atteggiamento fuori luogo in una persona adulta. L’assunzione di responsabilità non è un mostro che ti divora l’anima; anzi, è un grande attestato di maturità che dimostra l’uscita dall’infanzia. Ho visto persone avanti con gli anni comportarsi come se avessero paura di essere accusati di qualcosa, mettere le mani avanti per proteggersi, schivare il contraddittorio invece che spiegare quello che era effettivamente accaduto, fare corse mentali verso la costruzione di una barricata di parole per evitare un processo inquisitorio aziendale di kafkiana memoria.

Le bugie degli adulti sul posto di lavoro

Mi chiedo perché un adulto abbia così tanto bisogno di difendersi dalle persecuzioni di una, forse, inesistente Polizia Aziendale? Perché la tecnica dello scaricabarile verso il subordinato è il modo più utilizzato per schivare la spiegazione? L’assunzione di responsabilità, come dicevo, è un grande attestato di maturità, maturità che spesso manca ai dipendenti che manifestano i succitati comportamenti, ma che manca anche a quei capi che un simile comportamento lo appoggiano invece che ostacolarlo. Non a caso ho detto capi, perché i leader, quelli veri, la responsabilità se la prendono e si prendono anche quelle dei subordinati.

Allora J’accuse…! E come fece Emile Zola puntando i riflettori sull’Affaire Dreyfus, io li punto verso quei capi che, pur essendo appassionati di CSI e di polizieschi, non cercano le prove a sostegno della verità lasciando che situazioni poco complesse si ingarbuglino ancor di più peggiorando clima interno e rapporti di lavoro, dando un duro colpo alla motivazione del personale e alla fiducia del dipendente. Accuso di essere capo e non leader quell’imprenditore che una volta mi disse “Non sono sicuro di voler sapere tutto quello che accade nella mia azienda” Ancora J’accuse… Monsieur entrepreneur! Perché assumersi sempre le proprie responsabilità e avere il coraggio di affrontarne le conseguenze è un segnale forte e un indicatore altrettanto potente di intelligenza, morale, leadership e capacità, tutte doti che si insegnano e si trasmettono con l’esempio e la giusta punizione inflitta dal leader diventa un toccasana per l’anima che impara a non reiterare gli errori. Riconosco invece la capacità ledaer a quell’Amministratore Delegato che mi raccontò della sua impiegata infedele verso i valori aziendali di responsabilità e onestà che, pur di non assumersi la responsabilità di un piccolo errore procedurale, aveva falsificato un documento importante, scaricando tutto sulla sottoposta. Non si era arrabbiato, ma come fa un buon pater familias aveva chiamato la dipendente, l’aveva messa di fronte al suo errore spiegandole che la pena non sarebbe andata oltre un richiamo. Altrettanto tranquillamente le aveva mostrato il documento falso con le prove della falsificazione e del suo inappropriato comportamento. Vista la posizione che ricopriva nell’organico aziendale, non aveva avuto altra scelta che applicare la pena massima, che, seppur amara, io personalmente appoggio, così come appoggio il genitore che, pur traendone più patimento del figlio, lo punisce per responsabilizzarlo. Quel genitore sa che il bambino che oggi comprende il significato della pena, sarà domani un adulto maturo e responsabile e il libro delle sue scuse avrà certamente zero pagine.

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