La competenza è potere

La crisi economica ha aperto all’esigenza di analizzare in modo profondo le caratteristiche del sistema produttivo italiano e del mercato del lavoro. La domanda di tutti gli operatori in questi anni è stata perché, nonostante riforme e misure economiche volte ad abbassare il costo del denaro, il mercato del lavoro italiano sia sempre più instabile, […]

La crisi economica ha aperto all’esigenza di analizzare in modo profondo le caratteristiche del sistema produttivo italiano e del mercato del lavoro. La domanda di tutti gli operatori in questi anni è stata perché, nonostante riforme e misure economiche volte ad abbassare il costo del denaro, il mercato del lavoro italiano sia sempre più instabile, escludente è frammentato.

Le risposte ovviamente sono plurime e dipendono da fattori endogeni ed esogeni al mercato del lavoro. La mancanza di una politica industriale e di intervento pubblico in economia, la mancanza di infrastrutture proprie delle politiche di inclusione sociale a partire dai servizi per il lavoro, una rottura tra i percorsi di apprendimento, i fabbisogni delle imprese e la scarsa innovazione.
Questi sono solo alcuni degli elementi indagati in questi anni. Il perno centrale tuttavia sembra essere, osservando solo la composizione e la capacità di mobilità orizzontale dei lavoratori, quello relativo alle competenze.

Esiste un’ovvia relazione tra percorsi di istruzione e occupazione giovanile, uno studio dell’ISFOL ha messo in evidenza l’emergere di << una polarizzazione che vede da una parte una situazione per cui l’investimento in istruzione e in particolare la specializzazione in materie tecniche-scientifiche rappresenta effettivamente uno strumento per uscire dalla condizione di non occupazione e transitare verso contratti a tempo indeterminato e dall’altra una situazione per cui quelle stesse scelte di istruzione e orientamento non sembrano agevolare l’inserimento lavorativo con contratti atipici e a tempo determinato >>.

Si parla da qualche tempo del rapporto che c’è tra innovazione, crescita della digitalizzazione e informatizzazione e cambiamenti nel lavoro.
In Italia vi sono due fenomeni che mostrano il tratto dell’inefficacia delle attuali politiche pubbliche, in particolare gli orientamenti di politica del lavoro e di politiche attive, e l’incapacità del sistema delle imprese di essere reagente al cambiamento orientando investimenti in modo selettivo per la qualificazione professionale del personale.

Difatti, come dimostrano molti studi, il fenomeno della overeducation (persone qualificate impiegate in mansioni meno qualificate) è molto diffuso, così come lo è l’incapacità del sistema di incrociare domanda e offerta e di inserire nel mercato anche quella parte di lavoro più qualificata.
Se è vero che più si è istruiti più si trova lavoro, il dato prevalente è che questo non ha carattere stabile. Infatti due terzi delle nuove attivazioni di rapporti di lavoro continuano ad essere a termine. Andrebbe capito cosa diventa, allora, determinante nell’accesso ad un lavoro qualificato e stabile.

I dati (indagine PIAAC OCSE) ci dicono che l’Italia ha una forte penalizzazione sul fronte dell’analfabetismo funzionale, caratteristica che sembrerebbe confermata dalla tendenza del mercato del lavoro, soprattutto se si osservano le transizioni longitudinali dei lavoratori (il salto da un impiego all’altro, da periodi di occupazione ad altri di non occupazione).
Si registra una tendenza ancora più forte nel mercato da parte di quei lavoratori che, oltre a percorsi di istruzione, hanno molte soft skill, competenze e abilità sia funzionali che relazionali.

Per questa ragione il ruolo della formazione continua e l’accesso a sistemi di apprendimento durante tutto l’arco della vita sono battaglie importanti che segnano la nuova frontiera dei diritti del lavoro.
Abbiamo scelto di dedicare al tema un articolo della prima parte della nostra proposta di legge “Carta dei diritti universali del lavoro-nuovo statuto dei lavoratori “, l’articolo 17 che disciplina appunto il diritto ai saperi. Ma come Cgil stiamo lavorando anche ad una riforma del sistema della formazione continua dei lavoratori, dei fondi interprofessionali, dell’alternanza scuola lavoro e della formazione professionale, del sistema di politiche attive.

Meno di 500 milioni di euro è la dotazione del sistema di politiche attive a fronte dei circa 16 miliardi di euro di incentivi alle imprese per esonero contributivo e sconto Irap.
L’Italia investe nel sostegno all’impresa anziché alla persona, e questo genera distorsione nel mercato e scarso dinamismo, sia da parte delle imprese che nella mobilità consapevole dei lavoratori.

Infine la contrattazione soprattutto di secondo livello può giocare un ruolo fondamentale. La sfida della competitività e dell’innovazione si vince combinando investimenti e competenze diffuse; l’incrocio di questi due fattori avviene a livello nazionale, integrando politiche attive e politiche industriali, e al livello decentrato, incrociando anche con la contrattazione qualificazione è valorizzazione professionale con innovazione ed internazionalizzazione delle imprese.

In pratica più un’impresa investe, più è interessata a trattenere i lavoratori su cui ha investito stabilizzandone l’occupazione; più il lavoratore è formato più ha una domanda di valorizzazione che innalza qualità e quantità della produttività, creando un circolo virtuoso.
In questa sfida tutti gli attori, dal decisore pubblico alle parti sociali, hanno un ruolo importante nell’ordine tare politiche, programmazione e contrattazione nella direzione giusta.

Dal sistema dell’istruzione, alla ricerca, alla formazione continua, ai servizi per il lavoro, ai programmi di politica industriale, ognuno di questi segmenti rileva ai fini di un quadro di “sistema integrato” che possa capitalizzare le risorse disponibili, soprattutto quelle dei fondi europei, per determinare un modello di sviluppo basato sulla diffusione e sulla valorizzazione di tutti i livelli di apprendimento: formale, informale, non formale. La competenza è la chiave per la sicurezza sociale e per la libertà della persona, ma anche per la crescita dell’impresa e la sua competitività.

Il futuro è nella conoscenza, nella qualità del lavoro, nella libertà delle persone e nella qualità dell’organizzazione di impresa. Si può reggere la sfida della competitività globale se si investe nella sostenibilità e nelle persone: questa è la vera sfida culturale per la modernizzazione del Paese, abbandonare una visione austera e depressiva dell’intervento pubblico in economia e mettere al centro l’attenzione per le persone.

 

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