La comunicazione non profit ha perso la verginità

[in collaborazione con Osvaldo Danzi] Se penso ad una campagna che ha saputo interpretare al meglio il messaggio sociale attraverso le leve più moderne di comunicazione, penso alla campagna Coor-Down. L’associazione nazionale che si batte per sensibilizzare il pubblico su questa malattia ha trovato una chiave narrativa davvero contemporanea con un racconto che mette in scena la normalità delle persone […]

[in collaborazione con Osvaldo Danzi]

Se penso ad una campagna che ha saputo interpretare al meglio il messaggio sociale attraverso le leve più moderne di comunicazione, penso alla campagna Coor-Down. L’associazione nazionale che si batte per sensibilizzare il pubblico su questa malattia ha trovato una chiave narrativa davvero contemporanea con un racconto che mette in scena la normalità delle persone down inserite nel contesto e nella vita di tutti i giorni.

Quest’anno hanno fatto un bellissimo lavoro con le proposte di matrimonio dei ragazzi down, due anni fa programmarono un blocco pubblicitario in cui tutti gli spot tradizionali normalmente pianificati erano stati modificati per avere al loro interno un protagonista down.

Le pubblicità sociali ci hanno abituati al senso di colpa veicolato attraverso malati terminali e negretti da sfamare. Il fenomeno dell’Icebucket challenge in questo senso è la tesi dimostrata che l’unico modo di fare comunicazione sociale è immergerla nella narrazione quotidiana delle persone; intercettare un momento di verità, sensibilizzare sul problema senza pietismi, senza manierismi, ma con un linguaggio pubblicitario contemporaneo, di interazione. Una straordinaria idea di comunicazione che ha contagiato tutto il mondo basandosi solo e soltanto sulla sdrammatizzazione del problema e su un linguaggio di grande creatività dove l’insight del malato di SLA viene vissuta in prima persona dall’esperienza di chi si rovescia addosso un secchiello di acqua gelata: sai cosa prova un malato di Sla? Questo!

Chi sa fare il non profit usa le leve del marketing mix in maniera davvero strategica e questo, evidentemente, ha i suoi ritorni.

Se restiamo attaccati alla retorica del buonismo ci scandalizziamo, ma le associazioni non profit dal punto di vista del marketing sono agguerritissime, conoscono i loro concorrenti e sanno perfettamente come combatterli. Banalmente, osserviamo come si comporta la Chiesa Cattolica: al momento in cui si avvicina la scadenza, investe milioni di euro per convincere i contribuenti a versare l’8×1000 nelle loro casse. Paradossalmente sono le stesse casse che poi pagano la pubblicità! E non stiamo parlando di spot pubblicitari messi nei contenitori appositamente creati che vengono venduti a prezzi di listino agevolati; stiamo parlando di spot che vanno in onda in precisi break pubblicitari con prezzi di listino destinati alle multinazionali.

Le associazioni volontarie, le Onlus e le ONG non sono esenti da riflessioni di marketing strategico e come qualsiasi marca hanno le loro stagionalità: non è un caso dunque se le pubblicità legate al sociale abbiano un’accelerazione in concomitanza con le dichiarazioni dei redditi o sotto Natale: stanno facendo marketing.

Breve parentesi: non confondiamoci con la Pubblicità Progresso: un’istituzione nata in questo Paese per accreditare a livello istituzionale alcune campagne di sensibilizzazione su temi molto sentiti. Sono spot per la sensibilizzazione sulla problematica della guida in stato di ebbrezza, le ludopatie, la sieropositività. La pubblicità progresso certifica la bontà di un messaggio pubblicitario sotto le insegne di una campagna di sensibilizzazione che è di dominio pubblico. Ma non fa raccolta fondi.

La pubblicità ha sempre lavorato affinché il consumatore si rispecchiasse nel messaggio delle marche. Oggi siamo in un momento in cui  questo giochino degli specchi non ce lo possiamo più permettere perché le individualità sono diventate molto complesse ed è difficile far riconoscere qualcuno in qualcosa eppure il compito della pubblicità è fare in modo che le persone si riconoscano in un sentire e tocchino con mano una verità, da cui spesso si sentono distanti.

Un esempio su tutti. Il problema dei writer e del vandalismo nelle città è un problema sociale enorme che sembra però non riguardarci. Eppure abitiamo città completamente devastate specialmente nelle periferie dove il degrado è maggiore. Abbiamo fatto un video dove un writer imbratta gli oggetti delle persone: una carrozzina, una borsetta, una macchina che esce dall’autolavaggio. Le reazioni sono quelle di persone che si ribellano, che si arrabbiano, che si indignano ad un atto di vandalismo. Quando una cosa ti riguarda personalmente ti attivi, quando riguarda la collettività ignori il problema. Il compito della comunicazione sociale è fare in modo che le persone leggano una verità, ci si riconoscano, la sentano in qualche modo propria e si attivino nei confronti del brand che ha messo in scena quel tipo di messaggio.

Le battaglie si fanno con le idee. E con le icone.

Se ci fate caso, quello a cui le campagne non profit fanno riferimento è proprio la costruzione di un’icona: dal telefono azzurro alla coccarda nera di AMREF per sensibilizzare sulle morti neo natali, dal fiocco rosso dell’AIDS alle azalee vendute per strada o al cucchiaio bucato creato per ActionAid è quasi un altro registro: costruire un’icona che renda riconoscibile il messaggio di sensibilizzazione che la non profit porta avanti. Eppure creare iconogrammi di riferimento è una strategia che viene presa a prestito dal marketing profit, perché non è disdicevole. Dobbiamo uscire dalla retorica dei buoni sentimenti per cui chi si occupa di temi etici debba essere vergine sulle strategie di marketing e sulle logiche che accompagnano le comunicazioni profit.

In realtà, fanno lo stesso lavoro.

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