La credibilità degli advocate e il loro ruolo in azienda

Nel giugno scorso, in un post pubblicato sul suo blog, Ted Rubin (CMO di Brand Innovators e Social Marketing Strategist) ha messo in evidenza come solo il 30% dei dipendenti  sia impegnato su tutti i fronti – anche oltre i propri compiti – per far crescere e migliorare la propria azienda. Al restante 70%, sostiene […]

Nel giugno scorso, in un post pubblicato sul suo blog, Ted Rubin (CMO di Brand Innovators e Social Marketing Strategist) ha messo in evidenza come solo il 30% dei dipendenti  sia impegnato su tutti i fronti – anche oltre i propri compiti – per far crescere e migliorare la propria azienda.
Al restante 70%, sostiene Rubin, l’azienda deve imparare a parlare, mettendo in atto tecniche di dialogo e coinvolgimento che adotterebbe con il proprio cliente.

Questo per la sua utilità: oggi il dipendente è il primo “ambasciatore” del brand. In poche parole, è un media potenziale. Eppure, la figura dell’employee advocate (pur non essendo una novità assoluta) rimane un desiderata per una larga fetta di aziende, le quali non riescono ad attivare in questo senso i propri dipendenti.

Certo, non è facile. Quali possono essere le motivazioni che spingono un impiegato a parlare bene della propria azienda, magari sui social network, magari inimicandosi il vicino di scrivania?
Alcune aziende hanno provato a puntare su dinamiche di gamification (lo ha fatto ad esempio IBM) anche se alcuni, come ad esempio gli autori di Trap!T blog, pensano che gli effetti benefici non siano garantiti sul medio-lungo periodo.

Sarà: inserire meccaniche di gioco in piattaforme di connessione o di distribuzione di contenuti (ovviamente, attraverso i social network) sembra essere una soluzione vincente per alleggerire il ruolo e renderlo anche simpatico.
Rimane il fatto che per parlare bene della propria azienda è necessario prima di tutto chiedersi se ci sono gli elementi per farlo.

Se io, dipendente, vivo in un ambiente difficoltoso, dove percepisco ostilità dai miei superiori, è ovviamente difficile che – pur rimanendo in un ambiente produttivo che garantisce qualità al consumatore – possa parlare bene di ciò che trascorro ogni giorno: perché per me, il prodotto finale sarà comunque il frutto di difficoltà.
E se anche l’azienda provasse a incentivarmi a presentare il meglio, il messaggio che lascerei sarebbe comunque minato ed evidentemente “smascherabile”, andando così a danneggiare non solo la brand reputation del mio datore di lavoro, ma anche il mio.

Anche le tecniche d’approccio alla comunicazione possono essere sballate: un po’ come capitato, nelle settimane scorse, a Melegatti per un post poco riuscito sulla sua brand page di Facebook: a difendere l’azienda ci si sono messi i dipendenti, magari anche in buona fede, ma appunto: dipendenti. Tacciabili quindi dai consumatori di essere “di parte”, quindi non autorevoli.

Programmi evolutivi e di advocacy

Probabilmente, nel mondo ideale, l’employee advocate perfetto è quello che parli di un’azienda che è in grado di apparire anche al consumatore finale realmente differente: un racconto che non si basi solo sulla qualità del servizio o del prodotto, ma che spazi anche sulla sfera più “umana”.
Posti così al mondo ce ne sono pochi: Google, la Pixar, American Express.

Proprio per la difficoltà di realizzare ecosistemi così performanti, bisogna quindi partire dall’ABC, per provare a sfruttare quella che è una leva di comunicazione oggi decisiva, costruendo dei progetti che gradualmente aiutino le risorse a “entrare nel ruolo”.

In primis, è necessario appoggiarsi a un programma formativo, che dia le linee guida di quello che significa “parlare a nome del brand”. Sui social network, come attraverso qualsiasi altro media.
In seguito, è necessario assicurarsi un sistema di controllo: perché se è vero che ogni ambassador è la voce della marca, è importante anche intervenire in caso qualche frase venga detta a sproposito.
Infine, è probabile dover capire chi è in grado di essere advocate e chi no. Per questo è possibile dover scegliere, dopo aver aperto un periodo di candidature.

Tutto questo, però, non può tener conto del rapporto fra l’advocate e il dipendente “non designato”: perché non si crei una situazione di conflitto l’azienda deve saper dare le stesse motivazioni sia all’ambassador che al resto del team. Una scelta che potrà prevenire corto circuiti che minino la stabilità del gruppo di lavoro, motivate da invidie, rancori, giudizi affrettati.

L’azienda, insomma, prima di costruire il “corpo diplomatico”, deve fare in modo da garantirsi una costituzione che renda orgogliose le proprie risorse umane. Altrimenti, l’affermazione di uno “spirito unitario e nazionale” non sarà possibile.

E il futuro?

Con la variazione dell’algoritmo del NewsFeed nel 2014, Facebook ha dato un segnale chiaro: o i tuoi contenuti sono buoni e le persone li condividono, oppure per farli vedere dovrai pagare.

Il social network di Menlo Park, insomma, ha reso più importanti gli utenti che le aziende.
Se questa tendenza fosse premiata, in futuro sarà più decisivo avere risorse umane pronte a spendersi per l’azienda, anche nelle vesti di “megafoni”, perdonateci il termine.

Se le risorse umane non saranno coese, soddisfatte al di là dell’aspetto strettamente retributivo, allora non sarà possibile sfruttare al meglio questo enorme potenziale. Perché per essere un ambassador non basta essere incentivati, bisogna essere motivati. E se un collega ci guarda storto, perché parliamo bene della nostra azienda, rischiamo di perdere quella motivazione.

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