La cultura in busta paga

“Se credete che l’istruzione costi, provate con l’ignoranza”: con questa battuta rispondeva Derek Bok, ex preside di Harvard, a chi sosteneva che le rette della prestigiosa università americana, da lui diretta a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, fossero troppo care. Anche se gli Stati Uniti non sono l’Italia (a parte alcune eccezioni, il sistema […]

“Se credete che l’istruzione costi, provate con l’ignoranza”: con questa battuta rispondeva Derek Bok, ex preside di Harvard, a chi sosteneva che le rette della prestigiosa università americana, da lui diretta a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, fossero troppo care.
Anche se gli Stati Uniti non sono l’Italia (a parte alcune eccezioni, il sistema universitario di casa nostra è prevalentemente pubblico e l’iscrizione ad un percorso accademico è dunque accessibile a buon mercato), l’istruzione resta la più redditizia e lungimirante forma di investimento in capitale umano.

Derek Bok aveva ragione: un basso livello di scolarità implica costi diretti e indiretti che si scaricano sulla collettività e frenano lo sviluppo di un sistema Paese. La scuola è il passaporto per il futuro: una modesta quota di laureati e diplomati incide negativamente, ad esempio, sulla predisposizione all’innovazione e di conseguenza sulla capacità delle imprese di competere sui mercati globali. In tal senso le classifiche internazionali non arridono all’Italia: secondo le statistiche disponibili, il nostro Paese staziona nelle ultime posizioni in Europa per numero di diplomati (59% contro una media del 76%) ed è fanalino di coda anche per capacità di produrre laureati (24% contro il 38% della media Ue).
Un ulteriore ed ingente impiego di risorse origina poi dal fenomeno della dispersione scolastica: il risultato è che non si capitalizza l’investimento in formazione a favore di chi non porta a termine un corso di studi (si stima oltre 100 mila euro per un diplomato di scuola secondaria superiore), ma soprattutto vanno perse le potenzialità di un giovane che rinuncia ad andare a scuola e avrà maggiori difficoltà nel collocarsi sul mercato del lavoro.
Ampliando il discorso, i costi “invisibili” dell’ignoranza a carico della comunità riguardano molteplici ambiti: i sociologi documentano, che chi ha un basso grado di istruzione tende a manifestare uno scarso senso civico, è meno fedele dal punto di vista fiscale ed adotta stili di vita poco virtuosi per sé e la collettività (il crollo dei consumi culturali a cui abbiamo assistito negli ultimi anni, ad esempio, ha posto al centro del dibattito il tema della involuzione sociale del Paese).
Inoltre, la scuola ha da sempre rappresentato il più efficace strumento per favorire l’equità e la mobilità sociale: eppure i divari, che si erano ridotti negli anni Cinquanta e Sessanta per merito della scolarizzazione di massa, hanno ripreso ad ampliarsi, come conferma il recente calo delle iscrizioni universitarie al Sud e tra i figli degli operai. Come non bastasse, per coloro (pochi) che arrivano a tagliare il traguardo della laurea, i problemi non sono certo finiti: con il 48,5% (dati Eurostat), l’Italia presenta il tasso di occupazione dei “neo dottori” (entro 3 anni dal conseguimento del titolo) che è il più basso tra le principali economie europee, ben lontano dal 72% della Francia e dal 90% della Germania.

Fin qui, una rassegna di dati sconfortanti che tratteggiano ancora una volta una anomalia tutta italiana. Se ciò che raccontano le statistiche corrispondesse a verità, una domanda potrebbe sorgere spontanea: in fin dei conti, vale ancora la pena studiare? Ed una provocazione: l’ignoranza paga?
Facciamo una premessa: secondo la teoria dell’economia della formazione, gli individui scelgono il livello ottimale di istruzione da acquisire in funzione del reddito atteso al termine degli studi. Fra le variabili che contribuiscono a determinare il reddito futuro, il numero di anni di istruzione, unitamente alla qualità della medesima, è sicuramente la più rilevante: più a lungo si studia, più aumenta la probabilità di trarne un beneficio in busta paga.
Secondo l’annuale indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane, i laureati hanno in effetti redditi da lavoro più elevati rispetto a chi ha un livello d’istruzione inferiore: il reddito medio complessivo di un laureato è di circa 47 mila euro, il 30% in più di un diplomato ed oltre il 70% in più di una licenza di scuola media.
Sebbene l’investimento in formazione sia ancora redditizio, il differenziale salariale associato al possesso di un titolo di studio universitario si è decisamente ridotto nel corso del tempo (per una volta la crisi conta relativamente poco, si tratta di un processo di più lunga data): all’inizio degli anni Duemila il reddito di un laureato era pari al 50% in più nei confronti di un diplomato ed il doppio rispetto ad una persona con licenza di scuola media inferiore.
A parità di valore della moneta, negli ultimi quindici anni il reddito dei più istruiti ha perso il 20% del suo importo: questo perché i laureati di oggi svolgono in larga parte mansioni per cui risultano nello stesso tempo sovraqualificati e sottoinquadrati, ovvero esercitano attività per le quali sarebbero richieste competenze inferiori a quelle in loro possesso.

Pur con tutti i distinguo del caso, l’investimento in capitale umano è condizione essenziale per perseguire il benessere sociale. Anche la scuola italiana, come tutto il Paese, è chiamata a compiere un salto di qualità: non potremo avere sviluppo se non avremo ricerca ed innovazione e non potremo avere buona ricerca e buona innovazione senza un ottimo sistema di educazione di base. Ancor prima di dibattere di assunzioni e concorsi, occorrerebbe mettere a fuoco pochi e semplici principi cardine: lotta serrata all’analfabetismo, valutazione e formazione permanente degli insegnanti, più tecnologia e digitalizzazione, più cultura del merito.
Come ha recentemente scritto Beppe Severgnini, l’università è un investimento su se stessi. E, insieme alla scuola pubblica, resta l’ultimo grande frullatore sociale, capace di mescolare redditi, censo e geografia. Se si ferma, siamo spacciati.
Solo rimettendola in moto potremo invertire la tendenza e tornare a rendere l’Italia un Paese attrattivo, non solo di turisti e vacanzieri ma anche di sapere e competenze.

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