La lobby fantasma italiana, quella green

Il green. Non parliamo di erbe e buche, ossia del golf, ma del verde che oggi sembra essere un colore molto ambito. E non perché si tratta del colore più diffuso al mondo, al punto che alcune tribù dell’Amazzonia ne distinguono una ventina di tonalità diverse, che per loro sono colori diversi, ma per il […]

Il green. Non parliamo di erbe e buche, ossia del golf, ma del verde che oggi sembra essere un colore molto ambito. E non perché si tratta del colore più diffuso al mondo, al punto che alcune tribù dell’Amazzonia ne distinguono una ventina di tonalità diverse, che per loro sono colori diversi, ma per il fatto che il verde, o meglio il green, oggi è un suffisso molto utilizzato per indicare gli elementi legati all’ecologia all’interno dei settori quali economia, produzione e persino amministrazione. È quindi diventato abbastanza comune il fatto d’imbattersi, specialmente a livello mediatico, in un termine come quello della “lobby green“.

Di solito si tratta di comunicazione fatta da altre lobby, come per esempio quella dei combustibili fossili contro dispositivi normativi che vanno dagli accordi internazionali, come quelli sul clima e sulla protezione dello strato d’ozono, fino ai regolamenti comunali che tentano di arginare i processi di edificazione selvaggia. «Tutti dispositivi voluti e imposti dalle “lobby green”», si trova spesso sui media nazionali ed esteri. E andiamo a vedere come funzionerebbe questa lobby verde. Prima di tutto, se intendessimo analizzarla, la “lobby green” sarebbe un oggetto ben difficile da osservare. Sembrerà strano ma anche il solo focalizzarsi sull’oggetto in questione è già molto complesso. Gli ecologisti, specialmente in Italia, hanno infatti la spiccata tendenza alla frammentazione e non all’aggregazione, magari una frammentazione finalizzata (elemento essenziale per creare una lobby che a sua volta ha per definizione un oggetto, si pone uno o più obiettivi e si organizza con modalità precise, solitamente extraistituzionali, per perseguire quegli scopi).
«La lobby green non esiste, specialmente se si mettono a confronto fonti fossili e rinnovabili”, esordisce così Francesco Ferrante, ex parlamentare e cofondatore del Coordinamento FREE e di Chimica Verde, (due associazioni che si ripropongono di rappresentarerispettivamente il settore delle fonti rinnovabili e la nuova chimica sostenibile). “Con molta fatica si è messo assieme il Coordinamento FREE, mentre dall’altra parte ci sono stati fino a poco tempo fa Enel ed Assoelettrica che hanno avuto una capacità di fuoco di 100 a uno”.

E i fatti sembrano dimostrare tutto ciò se solo si pensa che una delle bozze del decreto messo a punto dal Governo Monti per diminuire gli incentivi alle fonti rinnovabili si rivelò essere scritta da una dirigente di Enel, nonostante il Pdf, il formato di file con il quale lavora spesso la Pubblica Amministrazione e dal quale è possibile risalire all’autore del testo, fosse “ufficialmente” su carta intestata del Ministero dello Sviluppo Economico. «E quest’assenza di lobby verde non riguarda solo l’energia, ma tutta la Green Economy, compreso il settore dei rifiuti nel quale fino a qualche anno fa ci poteva essere una realtà – piccola e relativa al settore del riciclo, n.d.r. – che avrebbe potuto assomigliare ad una lobby», conclude Ferrante che si definisce uno dei pochi lobbisti green.
Con ogni probabilità, quindi, la lobby green nasce da una necessità delle lobby fossili – queste sì esistenti, concrete e reali – di avere una sponda contrapposta al fine di acquisire una elevata credibilità, cosa che sarebbe messa in dubbio da un monopolio lobbistico sull’energia. Ed ecco quindi l’invenzione, perché di questo si tratta, della lobby climatica con la quale le fonti fossili prendono i classici due piccioni con una fava: aumentare la propria credibilità e combattere le politiche internazionali contro le emissioni climalteranti. La metodologia è quella di definire lobby climatica la stragrande maggioranza degli scienziati che si occupano di clima e che affermano sia l’esistenza dei cambiamenti climatici, sia la loro origine antropica, ossia umana.

Per dare un’idea, nell’ultimo rapporto dell’IPCC (il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, Intergovernmental Panel on Climate Change), il quinto, uno scienziato su 700 non era d’accordo circa un dettaglio e si è guadagnato un’intera pagina sul Corriere della Sera. La notizia è quella di una “polemica” interna tra gli estensori del rapporto, ossia il fatto che Richard Tol dell’università del Sussex dia un parere negativo in merito al sommario dello studio che a suo avviso sarebbe troppo allarmista.

Tanto è bastato per “eliminare” il 99,8658% degli scienziati “allarmisti”- i quattro decimali sono voluti per non inserire un generico 99,9% –  dalle pagine di uno dei più grandi quotidiani italiani. Se questo è il risultato della “lobby verde”, bisogna dire che se di lobby si tratta non è che funzioni molto bene. In realtà si tratta di un’immagine virtuale funzionale a mascherare quelle vere, attive da Bruxelles a Washington, e impegnate su scenari cruciali come la Cop 21 di Parigi, dove si attende un risultato al ribasso sul fronte della riduzione delle emissioni climalteranti, o del TTIP (Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, Transatlantic Trade and Investment Partnership) che ancora oggi ha delle parti secretate persino ai parlamentari europei, proprio a causa delle pressioni di alcune lobby industriali che stanno premendo per l’adozione incondizionata della clausola ISDS (Investors State Dispute Settlement). Al punto che persino nella Commissione Europea è emersa una frattura tra favorevoli e contrari, con tre commissari europei che mettono in dubbio la necessità di inserire la clausola ISDS nel TTIP, mentre il PPE (Partito Popolare Europeo) è per l’inserimento senza alcuna condizione della clausola, che avrebbe tra l’altro pesanti risvolti anche sui fronti alimentare ed ambientale.

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