La politica del fare Lobby sulle due sponde dell’Oceano

Nella sua accezione ideologica fare lobbying non è coltivare interessi privati ma assumersi responsabilità pubbliche. Fare lobbying diventa uno dei tanti momenti di costruzione delle decisioni collettive e di partecipazione dei cittadini alla vita politica. Dei cittadini, dell’associazionismo in genere. La distorsione si innesca nel momento in cui nel ciclo di produzione legislativa si inseriscono […]

Nella sua accezione ideologica fare lobbying non è coltivare interessi privati ma assumersi responsabilità pubbliche. Fare lobbying diventa uno dei tanti momenti di costruzione delle decisioni collettive e di partecipazione dei cittadini alla vita politica. Dei cittadini, dell’associazionismo in genere. La distorsione si innesca nel momento in cui nel ciclo di produzione legislativa si inseriscono portatori di interessi privati, per fini di lucro, e non collettivi per fini sociali.
È questo l’anello debole della catena democratica: riuscire ad impedire quelle pratiche che minacciano i meccanismi della democrazia influenzando i processi decisionali con elementi di condizionamento e corruzione della cosa pubblica.
Negli Stati Uniti l’attività di lobbying trova formale riconoscimento costituzionale nel Primo emendamento, in base al quale chiunque può presentare una petition al decisore pubblico.
Nel 1995 il Congresso degli Stati Uniti ha adottato il Lobbying Disclosure Act sul valore
della conoscenza pubblica della natura e della portata delle attività di lobbying esercitate sul processo decisionale governativo. Questo è il concetto chiave: la trasparenza nell’agire, che supporta il valore democratico della scelta all’atto del voto. Ogni contatto, ogni incontro, ogni finanziamento ricevuto è resocontato in un rapporto quadrimestrale. Il processo decisionale è, in una sola parola, trasparente.
In Europa, il fenomeno ugualmente presente e non regolamentato, è stato oggetto di iniziative pregevoli negli intenti ma non efficaci nella sostanza da parte della European Commission prima con Libro bianco sulla Governance europea della Commissione del 2001 e successivamente il Libro verde, iniziativa europea per la Trasparenza del 2006. Infine la creazione di un Registro europeo dei rappresentanti di interessi, a iscrizione volontaria e del Codice di condotta per i lobbisti.
Un tentativo miseramente naufragato con molte questioni cruciali non regolamentate: una su tutte, la mancanza di tracciabilità dei soggetti che fanno attività di pressione derivante dalla
natura facoltativa dell’iscrizione. In sostanza non sono presenti intere categorie professionali che in realtà esercitano frequentemente attività di pressione.

In Italia il lobbysmo ha assunto uno sviluppo distorto e fumoso a causa di alcuni fattori legati al sistema politico e al tessuto corporativistico industriale e produttivo dei servizi. Innanzitutto è un sistema di rappresentanza non regolamentata dal punto di vista normativo. È un esempio di pressione dei gruppi condizionato dalla cultura politica nazionale ed è un modello orientato all’esercizio dell’influenza come relazione sociale. È infine basato sui rapporti diretti e immediati tra lobbista e decisore piuttosto che su forme indirette di pressione. È un fenomeno tutto italiano e profondamente radicato nelle pieghe della politica. Al punto che è di questi giorni l’affermazione del Garante della concorrenza e del mercatoGiovanni Pitruzzella, nel corso della relazione annuale, che auspicando un iter veloce sul “DDL Concorrenza” sentenzia “L’opposizione delle lobbies, che difendono le loro rendite di posizione, sarà certamente assai intensa, ma siamo certi che il Parlamento saprà resistervi”.

Un problema in Italia c’è, ed è sentito dalle istituzioni parlamentari. Dal 1948 al 2013, 54 disegni di legge sono stati presentati in materia ma nessuno di essi è mai stato approvato. Nel corso della XVII legislatura, il governo presieduto da Enrico Letta ha ripreso il tema della regolamentazione dei gruppi di pressione. Tentativo fallito perché ritenuto troppo puntuale e interventista dal suo stesso esecutivo. I punti chiave dell’insuccesso sono stati la definizione delle autorità delegate alla tenuta del Registro dei lobbisti, l’entità delle sanzioni per comportamenti contrari alla legge, la frequenza della rendicontazione degli incontri tra politici e lobbisti. Regolamentazione si, ma non troppo. Ci riprova il Governo Renzi con il testo del DDL “Disposizioni in materia di rappresentanza di interessi presso i decisori pubblici” presentato all’esame della Commissione affari del Senato e passato dopo un anno all’esame della Camera. Un tentativo di regolamentare con un minimo di trasparenza le presunte pressioni, indebite o meno, a cui sono sottoposi i decisori pubblici. Una terra di nessuno. La trasparenza, ancora una volta, è la parola chiave. In USA, complice l’assenza di partiti forti e strutturati secondo le logiche europee, fondamentale strumento d’azione per i gruppi di pressione è il finanziamento delle campagne elettorali. Con l’approvazione del Federal Election Campaign Act, ogni cittadino, industria, impresa o associazione può costituire un Political Action Committees vale a dire gruppi di pressione che raccolgono fondi per finanziare la campagna elettorale di candidati che sosterranno i loro interessi ricevendo in cambio, i finanziamenti raccolti.

Nel corso degli anni i Political Action Committees sono divenuti una vera e propria arma elettorale
dei gruppi di pressione, lo strumento più efficace. Ma sono anche, come puntualizzato dalla Corte Suprema nella storica sentenza del 2010, espressione massima della democrazia e della libertà di ogni cittadino di sostenere i propri candidati. La differenza sostanziale con l’Unione Europea in genere e con l’Italia in particolare è negli obiettivi dei sistemi di regole. La regolamentazione del lobbying, dal punto di vista nordamericano, è volta soprattutto a garantire trasparenza, ridurre la corruzione nel processo di definizione delle politiche e promuovere la responsabilità pubblica dei decisori. Alla base degli attuali sistemi normativi europei vi è, invece, il desiderio di facilitare l’interazione tra imprenditori e legislatori, nel tentativo di promuovere lo sviluppo economico e non necessariamente per rafforzare la trasparenza e ridurre la corruzione.

Negli Stati Uniti quando votano sanno chi c’è dietro il candidato, chi ha raccolto fondi e quanto per la campagna elettorale. Un americano quando vota sa se sta votando per una persona sostenuta dalle potenti lobby dei petrolieri, del tabacco o delle armi. Poi è una libera scelta. È democrazia. Certo poi riflettere sulla diffusione delle armi è fare i conti con la propria coscienza. Anche la strage di Charleston di pochi giorni fa è in ultima analisi il frutto degenerato di questo sistema. Comunque libero, trasparente e democratico. “Il presidente ha fatto tutto quello che poteva fare. Il Congresso invece non è stato all’altezza, non è stato capace di affrontare la questione”: così Eric Schultz, portavoce della Casa Bianca, sulla mancata stretta sulle armi da fuoco che era stata proposta da Barack Obama. (Ansa del 19.06.2015). L’attività di lobbying, ed è questa una differenza abissale con il nostro sistema, inizia ex ante, già con la presentazione del candidato alle elezioni e non ex post, nei corridoi di palazzo, quando il patto di fiducia tra elettore ed eletto è stato già rotto.
Emblematico di un tessuto politico malsano tutto italiano è l’affaire Monti Bond che proprio in questi giorni ha restituito l’ultima tranche da un miliardo di euro al Governo.
Chiamato a presiedere un Governo di tecnici per risollevare, affossando definitivamente il sistema Welfare, le sorti del sistema paese bacchettato dalla BCE e minacciato dallo spread, il Professor Monti da un lato vara una pressione fiscale senza precedenti, una riforma delle pensioni “lacrime e sangue” per voce dell’allora Ministro del Lavoro, un taglio orizzontale al budget dei ministeri e tutto con lo scopo di rispettare gli impegni con l’Europa e poi si reca alla BCE per fare pressioni a favore del gruppo di salvataggio di un gruppo bancario privato, con i soldi della collettività. Monte dei Paschi è riuscita a trovare la quadra tra governo italiano e BCE cambiando destinazione a buona parte del gettito della pressione fiscale di quegli anni. Come è successo che un Governo ha nei fatti agito come un soggetto privato, puntando ufficialmente sul rientro dei capitali e degli interessi, e a margine al salvataggio di un gruppo bancario privato? Semplice, Uuilizzando i soldi della collettività. È qui il tradimento del patto elettorale, la mancanza di trasparenza nel rapporto fra i gruppi di pressione e i decisori pubblici che possono non agire in nome e per conto degli interessi della collettività. I Monti Bond sono serviti a liquidare la prima operazione di salvataggio dei Tremonti Bond del 2009 che MPS non era stata in grado di rimborsare. Un bel rischio dal punto di vista finanziario. Un salvataggio necessario per la stabilità del sistema italiano, verrà ufficializzato a valle dell’intervento. Ecco il Sistema Italia, in ultima analisi.

“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” (Il Gattopardo – Giuseppe Tomasi di Lampedusa- premio Strega 1959).

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